Investimenti, profitti e ripresa: il problema italiano. Un’analisi di lungo periodo

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La lunga fase di declino economico dell’Italia si può sintetizzare nella “legge del meno uno”: dal 1995 in poi, l’economia cresce ogni anno (in media) un punto in meno dell’insieme dell’Eurozona. In questo deludente risultato quale ruolo svolgono gli investimenti? Per rispondere a questa domanda l’articolo sottopone a un’analisi di lungo periodo (1995-2019) l’indebolimento della funzione di investimento dell’economia italiana. L’analisi empirica è anzitutto comparativa con altri paesi europei, in termini sia di crescita del volume degli investimenti, sia dell’incidenza sul Pil, sia degli effetti sulla crescita. In tutti i casi si conferma il continuo peggioramento relativo della situazione italiana. Un altro aspetto di rilievo è quello della comune tendenza prociclica alla riduzione in rapporto al valore aggiunto degli investimenti pubblici e privati, con un più forte ridimensionamento di quelli pubblici. Nel caso del settore pubblico la riduzione è legata alle politiche di austerità che, in un paese caratterizzato da una spesa corrente elevata, hanno investito in misura crescente la spesa in conto capitale. In quello del settore privato si riscontra invece la compresenza di ragioni opposte: da un lato l’indebolimento della maggioranza delle imprese ad opera delle sfide tecnologiche, di apertura dei mercati globali e della moneta unica; ma dall’altro la creazione di un ambiente interno particolarmente se non eccessivamente favorevole, non solo in termini di costo del denaro e del lavoro (diretto e indiretto), ma anche di politiche contributive e fiscali attuate da governi di varia coloritura politica. In questa situazione, nonostante le fortissime perturbazioni che attraversano il periodo, il saggio di profitto in rapporto al valore aggiunto si è fortunatamente dimostrato notevolmente stabile e resiliente. Tuttavia, dopo la “doppia crisi” (2008-2013) la capacità di reinvestire i profitti realizzati ha ciononostante mostrato una significativa caduta. Il problema italiano attuale è dunque la bassa propensione delle imprese a reinvestire i profitti realizzati più che l’esaurimento delle opportunità di profitto che, al contrario, appaiono paradossalmente migliorate. Una politica economica di lotta alla “legge del meno uno” richiede pertanto che si rianimi la propensione all’investimento delle imprese italiane – un compito certamente cruciale nella fase attuale di uscita dagli effetti economici della crisi pandemica.

Affrontare il declino

La lunga fase di debole crescita italiana, in cui molti autori rintracciano da gran tempo i tratti di un vero e proprio declino dell’economia se non del Paese[1], si può sintetizzare in un’evidenza empirica che possiamo definire “legge del meno uno”: dal 1995 in poi, l’economia cresce (in media) ogni anno un punto in meno dell’insieme dell’Eurozona (Figura 1) – che comunque non si è certo qualificata come campione internazionale di crescita. Oggi, dopo aver accumulato nei confronti dell’Eurozona un ritardo di quasi 30 punti di Pil a prezzi concatenati (a prezzi correnti “soltanto” di 9 punti), di fronte all’indifferibile necessità di reagire alla crisi del covid-19 utilizzando al meglio le risorse disponibili, nazionali ed europee, il Paese si trova nell’indifferibile necessità di intraprendere una nuova fase di sviluppo, che dovrà per forza di cose essere robusto, equo e al tempo stesso sostenibile.

Figura 1. La “legge del meno uno”. Crescita del PIL a prezzi concatenati in Italia, Germania ed Eurozona. Anni 1996-2019 (numeri indici 1995=100 e differenze tra il tasso di crescita annuale dell’Eurozona e quello dell’Italia)

Elaborazioni su dati Eurostat.

Oltre alle generiche ragioni macroeconomiche connesse alla lotta contro la “legge del meno uno”, che attestano l’impossibilità di combatterla senza un adeguato ammodernamento e ampliamento della struttura produttiva, specifiche grandi questioni nazionali e globali aperte (qui elencate alla rinfusa) premono alla porta. L’emergenza covid e quella della sicurezza sul lavoro, la lotta al cambiamento climatico e la transizione verde, la riparazione e prevenzione dei danni connessi al dissesto idrogeologico del territorio, l’ammodernamento delle infrastrutture materiali e tecnologiche (con particolare riferimento al Mezzogiorno), la digitalizzazione dei processi produttivi e la quarta rivoluzione industriale (che richiedono di contrastare il ritardo del Paese nell’economia della conoscenza e nella società dell’apprendimento), e altri ancora, costituiscono tutti obiettivi di grande rilievo, non negoziabili né rinviabili. Obiettivi il cui perseguimento detta alla classe politica e imprenditoriale l’inderogabile necessità di un consistente flusso di investimenti, pubblici e privati. Ancor più perché al contrario, come vedremo, da molto tempo gli investimenti in Italia sono venuti significativamente riducendosi, siglando dal lato del denominatore un’indesiderabile quanto inevitabile corrispondenza tra il declino economico e la continua crescita del rapporto tra debito pubblico e prodotto lordo.

La cosa è tanto più grave perché l’assenza dalla disciplina di bilancio dell’Eurozona della “regola aurea delle politiche di bilancio” – la cosiddetta golden rule, ossia la scelta di conteggiare nel disavanzo da correggere soltanto la spesa corrente (che solitamente non produce rilevanti ritorni economici differiti), escludendo invece gli investimenti in conto capitale (che propriamente non sono costi perché producono ritorni economici durevoli) – impedisce da tempo all’Italia di attivare nella misura adeguata le politiche anticicliche indispensabili per supplire alla crescente debolezza degli investimenti privati e sostenere la crescita dell’intero Paese (imprese incluse), migliorando la qualità e l’efficienza del sistema economico e aumentando la convenienza e la redditività degli stessi investimenti privati.

Questo studio concentra l’attenzione su diverse dimensioni della debolezza degli investimenti in Italia, proponendo un’analisi di lungo periodo anzitutto di carattere comparativo con altri paesi europei, in termini sia di crescita del volume, sia di incidenza sul Pil, sia di effetti sulla crescita. Un altro aspetto esaminato è quello della differente dinamica degli investimenti pubblici e privati, seppure accomunati in una tendenza prociclica alla riduzione in rapporto al valore aggiunto. Tuttavia, nonostante le fortissime perturbazioni che attraversano il periodo, il saggio di profitto in rapporto al valore aggiunto si dimostra notevolmente stabile e resiliente. Ma dopo la “doppia crisi” (2008-2013) la propensione a reinvestire i profitti realizzati subisce una caduta significativa, che segnala nel sistema delle imprese la presenza di problemi circa la disponibilità a reinvestire i profitti realizzati più che di esaurimento delle opportunità di profitto che, al contrario, appaiono paradossalmente migliorate. Conclude l’articolo una sintetica discussione di possibili linee di politica economica e salariale tese a rianimare la propensione all’investimento delle imprese italiane nel disegno della fase di ripresa dalla crisi pandemica.

Il problema dei bassi investimenti

L’indebolimento della funzione di investimento dell’economia italiana si può anzitutto osservare attraverso un’analisi comparativa con alcuni paesi europei, aderenti o no all’Eurozona (Tavola 1). Il confronto fra paesi dei tassi annui di variazione percentuale degli investimenti evidenzia che in Italia, nella media dei 24 anni trascorsi dal 1995 al 2019, essi sono cresciuti dello 0,5% l’anno, contro l’1,7% dell’insieme dell’Eurozona – ovvero con un ritmo pari a meno di un terzo. Il ritardo (espresso come differenza tra il tasso italiano e quello dell’Eurozona), che era già di 0,4 punti percentuali l’anno nel periodo di “aggancio e prima sperimentazione dell’euro” (1995-2007), è balzato a 2,4 punti l’anno nella fase della “doppia crisi”, finanziaria e dei debiti sovrani, (2008-2013), con una caduta media del tasso di crescita degli investimenti quasi doppia. Ed è quindi tornato a un valore più modesto (-1,7 punti l’anno) nella successiva fase di “crescita anemica” (2014-2019).

 Tavola 1. Crescita degli investimenti fissi lordi a prezzi concatenati in Italia e in altri paesi o raggruppamenti di paesi – Anni 1995-2019 (tassi medi annui di variazione %)

Elaborazioni su dati Eurostat.

Come risultato di lungo periodo, fatto pari a 100 il valore degli investimenti nel 1995, nel 2019 questo era diventato 112 per l’Italia e 150 per l’Eurozona. In altri termini, rispetto al 1995, nel 2019 l’Italia ha maturato, nei confronti dell’Eurozona, un ritardo negli investimenti fissi lordi di 38 punti percentuali – significativamente superiore in termini relativi a quello maturato nel prodotto lordo.

Quanto investe l’Italia?

Molte sono le dimensioni del sottoinvestimento italiano di lungo periodo. Una tra le prime è quella dell’entità degli investimenti rispetto al Pil, ovvero di quanta parte del reddito prodotto il Paese dedica a migliorare la dote materiale[2] che gli consente di produrre e accrescere quel reddito.

Tavola 2. Incidenza degli investimenti fissi lordi sul Pil in Italia e in altri paesi o raggruppamenti di paesi – Anni 1995-2019 (valori %)

Elaborazioni su dati Eurostat.

Nel lungo periodo in esame (1995-2019), l’Italia ha reinvestito in media, in beni non finanziari, soltanto il 19,5% del Pil (Tavola 2): una quota superiore unicamente a quelle di Grecia e Regno Unito, la prima preda di una profonda crisi economica e il secondo caratterizzato da una forte preferenza per gli investimenti finanziari. Nonostante la ricordata “legge del meno uno”, che avrebbe dovuto essere contrastata con politiche di aumento strutturale degli investimenti, la quota italiana è stata invece, in media, inferiore di 1,9 punti percentuali di Pil a quella dell’intera Eurozona, di 1,4 punti a quella tedesca, di 2,2 punti a quella francese, di 3,6 punti a quella spagnola (concentrata sugli investimenti immobiliari). La differenza si è fatta particolarmente acuta nell’ultima fase (quella di “crescita anemica”): 3 punti meno dell’Eurozona, 3,2 punti meno della Germania, addirittura 5,1 punti meno della Francia.

L’efficacia degli investimenti

Un aspetto di rilievo ancora maggiore è quello dell’efficacia degli investimenti. Gli investimenti italiani, come visto più limitati rispetto a quelli dei concorrenti, potrebbero infatti essere stati comunque, più efficaci nel promuovere la crescita, selezionati con maggiore cura e quindi capaci di generare un maggiore valore aggiunto. Non è facile misurare in modo esatto l’effetto degli investimenti sulla crescita, perché questi esercitano la loro influenza a distanze e per periodi di tempo che possono variare anche in misura consistente[3]. Tuttavia, seguendo la letteratura, possiamo ritenere ragionevole (ancorché certamente riduttivo) misurare gli effetti immediati degli investimenti sul reddito di un anno determinato rapportando gli incrementi in valore assoluto del Pil in quell’anno alla media degli investimenti effettuati due e tre anni prima. Questo è infatti il lasso di tempo generalmente necessario perché gli investimenti siano pienamente integrati nel processo produttivo delle imprese che li hanno effettuati, con particolare riferimento, nel caso degli investimenti in macchinari e nuove tecnologie, all’addestramento dei lavoratori e alle necessarie modifiche organizzative[4]. Agli effetti sulle imprese o sulle istituzioni pubbliche investitrici, poi, vanno a sommarsi quelli dei moltiplicatori che non coinvolgono soltanto quelle ma tutti gli operatori che, a diverso titolo, ricavano a cascata benefici dalla spesa autonoma da esse effettuata per porre in opera quegli investimenti.

Tavola 3. Incremento assoluto del Pil nell’anno t in rapporto alla media degli investimenti fissi lordi effettuati negli anni t-2 e t-3 in Italia e in altri paesi o raggruppamenti di paesi – Anni 1998-2019 (grandezze a prezzi concatenati, valori %)

Elaborazioni su dati Eurostat.

La Tavola 3 presenta il rapporto tra l’incremento in valore assoluto del Pil a prezzi concatenati e la media tra gli investimenti pubblici e privati (anch’essi a prezzi concatenati) effettuati due e tre anni prima. I dati evidenziano che, pur con grandissime differenze tra le tre fasi considerate (l’Eurozona nel complesso, ad esempio, passa da un rendimento medio annuo dell’11,3% nella fase precrisi all’1,0% nella fase della doppia crisi, per poi tornare al 7,9% nella fase di ripresa anemica), nel lungo periodo 1998-2019 gli investimenti italiani hanno avuto in media un effetto del 6,6% sull’incremento del Pil a distanza di 2/3 anni, mentre il valore della ricaduta è stato del 7,4% per l’intera Eurozona e del 7,2% per la Germania.

È pur vero che l’effetto degli investimenti italiani sul reddito è stato superiore non solo a quello della Spagna (4,6%) ma anche a quello, molto contenuto, della Francia (0,4%). Tuttavia gli investimenti realizzati in Italia non sono stati soltanto, come visto, insufficienti in termini di incidenza sul prodotto lordo in rapporto ai paesi concorrenti (Tavola 2), ma anche mediamente meno efficaci in termini di effetto sulla stessa crescita economica (Tavola 3), contribuendo quindi anche con la loro qualità ad aggravare il ritardo di crescita rispetto all’insieme dell’Eurozona e agli altri paesi europei[5].

Investimenti pubblici e investimenti privati

Un aspetto di particolare rilievo nell’analisi della debolezza degli investimenti italiani è poi quello legato alla differente dinamica che hanno presentato gli investimenti pubblici e quelli privati, seppure nella comune tendenza alla riduzione in rapporto al valore aggiunto.

La Tavola 4 riporta, per l’intero lungo periodo 1995-2019 e per i tre sottoperiodi internamente omogenei (1995-2007, 2008-2013 e 2014-2019), le informazioni riferite a quanta parte del valore aggiunto realizzato dall’economia è stata destinata agli investimenti pubblici e quanta a quelli privati, nonché a come, di conseguenza, è mutata la composizione percentuale pubblico-privato degli investimenti totali.

Tavola 4. Pubblico e privato: investimenti fissi lordi in rapporto al valore aggiunto e incidenza degli investimenti del settore sul totale – Anni 1995-2019 (investimenti a prezzi concatenati, valori %)   

Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali.

La quota sul valore aggiunto degli investimenti privati si riduce, tra il primo e l’ultimo dei periodi considerati, di circa 2,5 punti percentuali, ovvero di circa un ottavo; mentre quella degli investimenti pubblici di un altro punto percentuale, ovvero di poco meno di un terzo. In conseguenza dei minori investimenti, nell’ultimo periodo di “crescita anemica” il Paese investe soltanto il 19,3% del valore aggiunto: 3,4 punti di valore aggiunto in meno rispetto al primo periodo, di “aggancio e prima sperimentazione dell’euro”, nonostante i gravi problemi di declino che abbiamo segnalato, evidenti da tempo, avrebbero semmai richiesto una politica anticiclica di forte aumento degli investimenti, in particolare pubblici. A prezzi 2019, la caduta è pari a 54,5 miliardi di euro.

La caduta degli investimenti pubblici

Dunque in Italia investono poco, e per giunta sempre meno, sia il settore pubblico sia quello privato. Qual è il motivo di questa progressiva scarsità? Per il settore pubblico è più facile a dirsi perché, come abbiamo notato, l’adesione all’euro ha comportato per l’Italia l’obbligo di sottostare ai vincoli stringenti del Trattato di Maastricht (1992), poi del Patto di stabilità e crescita (1997) e quindi del Fiscal Compact (2012), concepiti più per assicurare stabilità alla moneta comune che crescita e convergenza ai paesi aderenti ad un’area valutaria subottimale sin dalla costituzione[6].

Nello specifico caso italiano, per il quale l’invecchiamento della popolazione impone costi sanitari e soprattutto pensionistici strutturalmente più elevati, e quindi una più ingente spesa corrente pro capite, che si somma a un carico fiscale meno progressivo e più pesantemente evaso o eluso, l’assenza dalle regole di bilancio europee della ricordata golden rule, che esclude la spesa in conto capitale dal calcolo del disavanzo, ha progressivamente e pesantemente decurtato le disponibilità destinabili ad investimenti pubblici. In una situazione di pesanti vincoli di bilancio è senza dubbio politicamente più facile tagliare il futuro che il presente, anche se poi il futuro presenta inevitabilmente il conto.

Al quadro depressivo di base si è sommato l’affermarsi di un diffuso quanto infondato consenso politico generale di tipo privatistico e “mercatista”, secondo il quale il mercato lasciato a se stesso – e anzi continuamente favorito dal decisore politico – avrebbe più che supplito al ritiro della mano pubblica dall’economia, e lo avrebbe fatto in modo efficiente e libero dai condizionamenti, dalle clientele e dagli sprechi della politica. Si può aggiungere che, in un’ottica di breve termine, la rinuncia a buona parte dei necessari investimenti pubblici era vista come necessaria per aprire spazi finanziari all’agognata riduzione delle imposte e, al tempo stesso, per ulteriori avanzamenti delle attività private concorrenti con quelle pubbliche, che avrebbero entrambi dovuto esercitare benefici effetti sulla crescita dell’economia. I risultati smentiscono impietosamente questo diffuso convincimento. Analoga valutazione andrebbe fatta sull’efficacia di continui, consistenti, “eroici” avanzi primari, quando l’utilizzo di quelle risorse pubbliche per sostenere gli investimenti ne avrebbe invece ridotto nel tempo la necessità.

In definitiva, in una situazione di questo tipo, protratta per un quarto di secolo, non può stupire che la gran parte degli obiettivi di intervento che all’inizio di questo scritto abbiamo qualificato come “non negoziabili né rinviabili” (e il cui perseguimento avrebbe costituito un rilevante argine alla “legge del meno uno”), siano invece ancora in larga misura soltanto in discussione. Né che abbiano sinora scarseggiato le risorse pubbliche indispensabili per perseguirli nell’ambito di una strategia coerente mirata all’interesse collettivo (che ovviamente comprende anche quello dell’insieme delle imprese).

La caduta degli investimenti privati

Nel caso del settore privato, invece, la ragione della progressiva caduta degli investimenti (tra il 2007 e il 2019 -17,6% a prezzi concatenati) è meno evidente. Bisogna anzitutto premettere che, per l’impresa, il periodo in esame è stato caratterizzato da diverse e temibili sfide, tra le quali sono certamente da porre in evidenza: a) l’accresciuta e agguerrita concorrenza internazionale non solo in prodotti tecnologicamente avanzati, ma anche in prodotti maturi, in competizione diretta con le produzioni interne; b) la rapida diffusione delle nuove tecnologie informatiche, in cui l’Italia ha presentato nell’insieme un cospicuo e persistente ritardo; c) la moneta unica, che ha azzerato la possibilità di ricorrere alle svalutazioni competitive che avevano caratterizzato l’economia italiana nel turbolento periodo dal 1973 al 1992; e infine, d) le guerre commerciali che hanno contraddistinto la terza fase esaminata. Queste sfide avrebbero dovuto da un lato espellere dal mercato le imprese meno efficienti e dinamiche, ma dall’altro spingere le imprese vitali, possibilmente con il sostegno della mano pubblica e dei settori bancario e finanziario, ad attrezzarsi in modo adeguato a sostenerle con successo.

In effetti, l’ambiente interno in cui si sono trovate ad operare le imprese che, in un modo o nell’altro, sono riuscite a fronteggiare le sfide ricordate o a rimanerne al riparo, si è dimostrato particolarmente favorevole, non solo in termini di costo del denaro e del lavoro (diretto e indiretto), ma anche delle successive agevolazioni (misure di decontribuzione e defiscalizzazione, condoni ecc.) concesse dai governi di vario colore per raggiungere determinati obiettivi di politica del lavoro o fiscale. Tant’è che nell’ultimo quarto di secolo, seppure nel quadro di un’economia come abbiamo visto stagnante, azionisti e amministratori delle imprese italiane medio-grandi hanno comunque accumulato profitti e utili, avvalendosi anzitutto della redistribuzione primaria del valore aggiunto ottenuta con il blocco dei salari reali connesso alla mancata diffusione della contrattazione decentrata e alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro[7]. Poi delle varie agevolazioni e decontribuzioni, riforme pensionistiche, ripetute riduzioni della progressività delle imposte dirette, condoni fiscali e mancanza di progressività delle imposte sui guadagni finanziari. Oltre a tutto questo, le imprese hanno poi ottenuto crediti bancari a interessi particolarmente vantaggiosi rispetto all’epoca della lira, così che il complesso di questi benefici ha consentito loro di accumulare profitti in un’economia stagnante e di ridurre significativamente i debiti sotto il 40% delle passività di bilancio.

Ed eccoci al punto. Nonostante (ma, paradossalmente, forse proprio a causa di) queste condizioni straordinariamente favorevoli, azionisti e amministratori hanno investito nelle loro imprese in misura insufficiente e decrescente, non hanno innovato e hanno lasciato ristagnare la produttività come nessun altro paese europeo ha fatto[8]. Non ne avevano bisogno? Per valutare questo risultato apparentemente paradossale bisogna tenere presente che l’investimento e la riorganizzazione delle imprese sono processi lunghi, complessi e costosi. La loro attivazione è quindi condizionata dalle aspettative sull’evoluzione futura dell’economia che, a sua volta, è compito della politica illustrare, preparare e guidare. Nel caso italiano, risultati di crescita sconfortanti come quelli registrati dal 2008 in poi hanno certamente deluso le aspettative delle imprese operanti sul mercato interno, scoraggiando gli investimenti e creando così un circolo vizioso, quasi una nefasta profezia autoavverantesi, in cui bassi salari e bassi investimenti hanno depresso la crescita mentre, a loro volta, le consolidate aspettative di una crescita modesta hanno ulteriormente scoraggiato gli investimenti (anche a fronte di profitti cospicui), alimentando una spirale depressiva di lungo periodo che solo un intervento esogeno può invertire.

I profitti delle imprese

Figura 2. Profittabilità del settore privato – Periodo 1995-2019 (margine operativo lordo in rapporto % al valore aggiunto, dati a prezzi correnti; la linea tratteggiata indica la media dell’intero periodo)

Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali.

Per approfondire questo caso lampante di fallimento del mercato[9], vediamo come sono andati i profitti delle imprese italiane nell’ultimo quarto di secolo. La Figura 2 riporta, per l’insieme del settore privato, i valori annuali del tasso di profitto rispetto al valore aggiunto dello stesso anno, espresso come incidenza percentuale del margine operativo lordo (MOL).

Nonostante le fortissime perturbazioni che attraversano il periodo esaminato, il saggio di profitto sul valore aggiunto si dimostra notevolmente stabile e resiliente. L’oscillazione nei confronti del valore medio dell’intero periodo (42,5% del valore aggiunto, linea tratteggiata) è relativamente contenuta: se per 11 dei 25 anni esaminati il valore si colloca sotto la media di lungo periodo (mediamente di 1,3 punti percentuali), per 14 anni ne è invece al di sopra (mediamente di 0,9 punti).

La fase di “aggancio e prima sperimentazione dell’euro” è quella più favorevole. Tra il 1997 e il 2001 il MOL cresce dal 41,1 al 44,9 per cento del valore aggiunto, e inizia poi un ridimensionamento che lo condurrà nel 2008, nel periodo iniziale della successiva fase della “doppia crisi”, al valore medio di lungo periodo. Negli anni successivi gli effetti della doppia crisi si fanno sentire: nel biennio 2009-2010 il MOL cade di due punti percentuali, dal 42,6 al 40,6% del valore aggiunto. Un arretramento consistente, che segnala lo stato di grave sofferenza delle imprese italiane: in valore assoluto, mentre la contrazione del valore aggiunto a prezzi concatenati è del 7%, quella del margine operativo è quasi del 12%. Tuttavia, la ripresa di profittabilità, per quanto debole e lenta, inizia già l’anno successivo (2011); sicché nel 2016 viene nuovamente superato il tasso medio di lungo periodo e la crescita continua nel 2017, quando il margine operativo raggiunge il valore del 43,2%. In seguito si registra un nuovo ridimensionamento, che nel 2019 porta il MOL leggermente al disotto del valore medio, al 42,1% del valore aggiunto: un’incidenza comunque superiore di un punto percentuale al valore del 1995.

Figura 3. Redditività degli investimenti del settore privato – Periodo 1995-2019 (margine operativo lordo in rapporto % alla media degli investimenti fissi lordi effettuati 2 e 3 anni prima, dati a prezzi concatenati 2015; la linea tratteggiata indica la media dell’intero periodo)

Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali.

La situazione è illustrata in modo ancor più chiaro dalla figura 3, che presenta l’evoluzione della redditività degli investimenti del settore privato calcolata come rapporto percentuale tra il MOL e la media degli investimenti fissi effettuati due e tre anni prima (il valore medio del rapporto per l’intero periodo, pari al 184,6%, è rappresentato dalla linea tratteggiata). Le oscillazioni sono molto più ampie e i punti sopra la media sono 10, quelli sotto la media 12. Anche il percorso temporale è delineato più nettamente: la redditività degli investimenti supera il 200% nel 2000-2001 e poi inizia un notevole ridimensionamento che dura fino al 2007, con una caduta di più di 27 punti in sei anni. Con la “doppia crisi”, poi, la caduta è molto più intensa: più di 29 punti ulteriori in soli due anni, con la redditività degli investimenti che scende al 146,5%. Ma già nel 2010 inizia il rimbalzo a V che riporta in tre anni la redditività al 172%; e la crescita continua fino al 2017, quando con il 220% viene ampiamente superato il picco del 2000 (204%). Negli anni successivi la redditività degli investimenti privati subisce un nuovo ridimensionamento.

Ovviamente, le performance medie della profittabilità e della redditività delle imprese private non sono che artifici statistici che non tengono conto del fatto che le condizioni di salute delle singole imprese dipendono in modo cruciale dalle loro caratteristiche strutturali, quali il settore e la dimensione (il mercato specifico su cui insistono e il potere di mercato di cui godono) e, ancor più, il grado di integrazione nelle catene di valore internazionali e la posizione in esse occupata[10] – a loro volta condizionati dall’intensità tecnologica, dalla qualità della produzione e dei servizi di management. Va però notato che, nonostante il progressivo ed evidente declino dell’economia italiana nel contesto europeo, oggi il 20% più ricco delle famiglie italiane (al cui interno ricadono proprietari e amministratori delle imprese medio-grandi) possiede un patrimonio netto di 6 mila miliardi di euro (due terzi del totale del Paese), ossia tre volte e mezzo il Pil.

Il problema è la propensione a reinvestire i profitti

L’ultima questione che questo contributo affronta è, dunque, quella della propensione delle imprese a reinvestire in Italia i profitti realizzati. Infatti, l’indice dei profitti non è certo l’unica variabile da cui dipenda la crescita del Paese: fare profitti è condizione necessaria ma evidentemente non sufficiente. Perché l’economia cresca i profitti vanno reinvestiti.   

Figura 4. Settore privato. Propensione a reinvestire il margine operativo lordo realizzato l’anno precedente. Periodo 1996-2019 (rapporti %, dati a prezzi concatenati; la linea tratteggiata indica la media dell’intero periodo) 

Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali.

La figura 4 illustra la misura in cui, nel lungo periodo 1996-2019, le imprese del settore privato hanno reinvestito – in Italia e in investimenti non finanziari – gli utili realizzati. Un dato subito evidente è che le escursioni nel tempo della propensione al reinvestimento sono molto più intense di quelle della profittabilità. E i valori inferiori alla media di lungo periodo, pur essendo meno numerosi, sono relativamente più distanti da quella di quanto non accada per la profittabilità.

In particolare, la fase della “doppia crisi” ha inciso pesantemente sulla propensione al reinvestimento, facendola cadere dal 61,7% del 2007 al 49,4% del 2014, con una perdita di ben 12,3 punti percentuali. In altri termini, dopo la “doppia crisi”, mentre l’incidenza dei profitti sul valore aggiunto si ridimensiona di un solo punto percentuale (dal 42,9% del 2007 al 41,9% del 2014) quella degli investimenti sul margine operativo crolla di più di dodici volte[11].

La relazione tra profittabilità e propensione all’investimento è ancor meglio visibile nella Figura 5, che riporta in un unico grafico tanto i numeri indici delle due variabili (in base 1996=100), quanto la loro differenza nel corso del tempo. La figura evidenzia quanto frequentemente l’aumento della propensione a reinvestire sia stato inferiore a quello della profittabilità, o si sia addirittura riscontrata una sua caduta anche a fronte di una profittabilità crescente (tra il 2012 e il 2014), a riprova del tempo richiesto per recuperare la fiducia delle imprese dopo una fase di crisi.

Figura 5. Settore privato. Profittabilità (margine operativo lordo/valore aggiunto), propensione a reinvestire il margine operativo lordo realizzato l’anno precedente e loro differenza. Periodo 1996-2019 (numeri indici in base 1996=100)

Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali.

Ulteriori indizi sulla complessa relazione tra profitti e investimenti del settore privato possono essere ricavati dalla Figura 5, che evidenzia sull’asse verticale il livello degli investimenti e su quello orizzontale la loro redditività (espressa come rapporto percentuale tra il margine operativo e la media degli investimenti fissi effettuati due e tre anni prima).  

La figura evidenzia l’esistenza di una relazione negativa tra il livello della redditività e quello degli investimenti nei periodi 1998-2007, 2010-2014 e 2017-2019, durante i quali all’aumentare della redditività gli investimenti privati tendono a ridursi o, viceversa (e ben più comprensibilmente), al ridursi della redditività gli investimenti tendono a crescere. L’opposto avviene nel triennio 2007-2010 e in quello 2014-2017. Questi dati confermano il rilievo della caduta della propensione delle imprese a reinvestire nell’economia reale italiana i profitti realizzati, nonostante il significativo aumento della redditività degli investimenti che in particolare, nell’ultimo quinquennio, raggiungono e superano il precedente massimo di redditività del 2000. Apparentemente, la caduta della propensione a investire, deprimendo gli investimenti, deprime la crescita e con essa deprimerebbe anche le aspettative di profitto degli stessi investimenti, seppure in una situazione di alta redditività degli investimenti recenti.

Figura 5. Settore privato. Relazione tra gli investimenti fissi lordi e il margine operativo lordo rapportato alla media degli investimenti fissi lordi effettuati due e tre anni prima. Periodo 1998-2019 (grandezze a prezzi concatenati 2015; migliaia di euro e incidenze percentuali)

Elaborazioni su dati Istat, Conti nazionali.

Rianimare la propensione agli investimenti

Nell’insieme, le evidenze empiriche qui mostrate segnalano che, al netto dei gravissimi danni causati dalla diffusione del covid-19, nella fase attuale la stagnazione degli investimenti e il conseguente declino di lungo periodo dell’economia italiana sono un problema di propensione delle imprese a reinvestire i profitti realizzati più che di esaurimento delle opportunità di profitto, che anzi negli anni precedenti l’epidemia erano particolarmente favorevoli. Dunque, per combattere la “legge del meno uno” riportando il Paese su di un sentiero di crescita sostenuta, almeno pari a quello della media dell’Eurozona, il problema principale sembra consistere da un lato nel varare una fase di intensa ripresa degli investimenti pubblici e, dall’altro, nel rianimare la propensione all’investimento delle imprese private – un problema reso certamente ancor più cruciale dal bisogno impellente di assicurare la resilienza dell’economia a fronte della crisi epidemica, anche solo per rendere sostenibile il forte incremento del debito pubblico necessario ad attenuarne gli effetti economici e sociali.

Dunque, anzitutto una forte ripresa degli investimenti pubblici costituisce la base della nuova fase di ripresa. Quando, come nel momento attuale, l’incertezza macroeconomica è elevata – e, nota il Fondo Monetario Internazionale, nella fase attuale dell’economia mondiale essa è “insolitamente grande” – i moltiplicatori degli investimenti sono particolarmente elevati e gli investimenti pubblici fungono da catalizzatore per il decollo di quelli privati. “Il Fondo stima che un aumento dell’1% del PIL negli investimenti pubblici, nelle economie avanzate e nei mercati emergenti, ha il potenziale di sospingere il PIL del 2,7%, gli investimenti privati del 10% e, cosa più importante, di creare tra i 20 e i 33 milioni di posti di lavoro, direttamente e indirettamente”[12]. Dunque, ciò che si chiede anche al governo italiano è di approfittare del temporaneo rilassamento delle restrizioni di bilancio europee per riportare gli investimenti pubblici al 3% o più del valore aggiunto e costruire in questo modo una cornice particolarmente favorevole all’investimento privato.

Ma quali sono, invece, le forze di mercato che frenano gli investimenti delle imprese anche quando i profitti crescono? Escludendo da subito l’ipotesi monetarista che lega gli investimenti ai tassi di interesse, mai tanto convenienti quanto oggi, le imprese potrebbero esitare a fare nuovi investimenti per tre ragioni. Anzitutto perché le prospettive di crescita del Paese appaiono poco invitanti[13]: in una situazione in cui il mercato interno oscilla da troppi anni su di crinale in bilico tra recessione e stagnazione, mentre quello internazionale offre più attraenti opportunità di investimento, se sono tanto efficienti da fare profitti, è probabile che preferiscano reinvestirli in mercati – fisici o finanziari – che assicurino migliori prospettive di crescita del mercato e rendimenti più elevati. La liberalizzazione dei movimenti dei capitali e l’intenso sviluppo del mercato finanziario globale costituiscono, così, non solo un’opportunità ma anche un notevole problema per economie caratterizzate, come quella italiana, da un settore finanziario di piccole dimensioni, da una debole politica industriale e da una presenza limitata dell’industria pubblica, che non si dimostrano in grado di garantire misure anticicliche e ritmi di crescita elevati[14].

La seconda forza di mercato che, in accordo con la letteratura economica mainstream, sospinge gli investimenti è quella della concorrenza[15]. Le imprese sottoposte a un’intensificazione della concorrenza, tanto nazionale che internazionale, dovrebbero essere spinte a investire di più per ammodernarsi, riorganizzarsi, innovare tecnologie, processi e prodotti. Ma questa strada non è aperta a tutte[16]. Le tante microimprese, e le piccole imprese in genere, solitamente non dispongono di risorse sufficienti a fare investimenti di rilievo e puntare sull’innovazione, a meno che non si uniscano in gruppi, consorzi, distretti o filiere capaci di operare non solo sull’asfittico mercato interno e con una dimensione remunerativa[17].

Le imprese grandi e ben posizionate nelle catene del valore internazionali, all’opposto, sono protette dalla concorrenza, perché dotate di tecnologie che assicurano loro almeno per periodi di tempo non brevi posizioni oligopolistiche custodite da rilevanti barriere all’entrata[18]: le potenziali concorrenti dovrebbero investire troppo per poter competere. In sintesi, dunque, le imprese della giusta dimensione – né troppo piccole né troppo grandi e magari organizzate in gruppi, filiere o consorzi –, che davvero potrebbero fronteggiare un’intensificazione della concorrenza rafforzando gli investimenti ai fini di un miglioramento della profittabilità, sono in Italia troppo poche per trainare fuori dal guado l’intera economia.

Resta dunque la terza forza di mercato, le retribuzioni: quella wage whip cui Paolo Sylos Labini affidava, direttamente e indirettamente, una rilevante funzione di stimolo della produttività, delle riorganizzazioni e degli investimenti[19]. Il legame che dai salari va alla produttività agisce, secondo Sylos Labini, attraverso tre canali diversi. Anzitutto l’ampliamento del mercato – nel caso specifico, il mercato interno dei beni di largo consumo (beni-salario) – che apre alle imprese nazionali prospettive di espansione tali da indurre nuovi investimenti, divisione e specializzazione del lavoro ed economie di scala (effetto Smith, spesso chiamato anche legge di Kaldor-Verdoorn). In secondo luogo, la crescita del costo del lavoro rispetto a quello dei macchinari, che spinge le imprese in tutti i settori a riorganizzarsi e a modernizzarsi, seppure al rischio di creare almeno temporaneamente situazioni di disoccupazione tecnologica (effetto Ricardo). Infine, l’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto oltre quello dei prezzi del prodotto stesso, che spinge le imprese a riorganizzarsi e a investire per tutelare i propri profitti (effetto costo assoluto del lavoro o effetto organizzazione).

Per fare un esempio di questo terzo effetto si può notare che tra il 1995 e il 2015, nei dati Eurostat, il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) è cresciuto in Italia del 45,8%, nella media dell’Eurozona del 39,7% e in Germania soltanto del 23,8%. Ma il deflatore del Pil, ovvero il prezzo di tutti i beni e servizi prodotti dall’economia, è cresciuto in Italia del 52,2% (ovvero 6,4 punti più del Clup), nell’Eurozona del 34,5% (5,2 punti meno del Clup) e in Germania del 16,4% (7,4 punti meno del Clup). Se il Clup cresce più dei prezzi del prodotto (effetto costo assoluto del lavoro), le imprese sono spinte a riorganizzarsi e a investire per moderare il costo del lavoro con la crescita della produttività. È la crescita della produttività che consente alle imprese di moderare i prezzi al di sotto dell’aumento del Clup. In questo modo, dove il Clup cresce più del deflatore aumenta il potere d’acquisto dei salari rispetto ai beni prodotti internamente e con esso si amplia il mercato interno e si sostiene la crescita. Invece in Italia, dove il Clup è cresciuto meno del deflatore, i salari hanno ovviamente ristagnato, il lavoro ha potuto avere accesso ad una parte minore del proprio prodotto e si è impoverito, impoverendo il mercato interno. Le imprese hanno difeso i profitti tenendo fermi i salari, e in questo modo non hanno avuto bisogno di investire per aumentare la produttività e la crescita è rimasta bloccata per la compressione della domanda interna.

Per concludere: salari, investimenti e produttività

Certo il salario, che con l’orario di lavoro è la dimensione fondamentale del conflitto industriale, è una variabile che il sindacato deve saper manovrare con giudizio per non provocare danni (anche se circoscritti e temporanei) agli stessi lavoratori. Ma la prudenza nell’uso della “frusta salariale” dev’essere ragionevole e non paralizzante, e guidata dall’intento di realizzare accordi che rispettino almeno nel tempo la “regola aurea” della dinamica salariale. Ovvero che proporzionino l’incremento medio dei salari a quello della produttività[20], realizzato nel triennio contrattuale precedente o, meglio ancora, programmato dall’impresa insieme ai lavoratori per il triennio successivo[21]. È infatti il rispetto della regola aurea la condizione contrattuale che garantisce la stabilità della distribuzione primaria del reddito, in Italia già fortemente alterata a favore delle imprese a causa anzitutto dell’indisponibilità della contrattazione decentrata per una quota troppo grande dei lavoratori. Ed è proprio la possibilità di traguardare gli incrementi salariali ad un obiettivo di produttività programmato di comune accordo, quale elemento centrale dello sviluppo nel triennio contrattuale del settore, dell’impresa e del territorio, possibilmente prevedendo un graduale recupero della quota del lavoro nel reddito, che potrebbe sostenere i consumi rianimando la domanda interna e, con, essa anche gli investimenti privati e la crescita.

La stagnazione del potere d’acquisto dei salari italiani dalla metà degli anni ’90 ha infatti provocato al Paese danni enormi, bloccando la crescita, disincentivando gli investimenti e favorendo la creazione di ampie sacche di povertà, al punto che si può dire che paradossalmente, insieme al crollo degli investimenti pubblici dovuto alle politiche di austerità, la causa della “legge del meno uno” e della caduta della propensione all’investimento delle imprese private va ricercata per l’appunto nell’autogol causato dalla stagnazione “secolare” dei salari reali[22].

Certo, grazie anche al miglioramento della competitività di prezzo consentita dal real wage cap italiano, nel 2019 le esportazioni hanno segnato, al netto delle importazioni, un aumento di 43,6 miliardi a prezzi concatenati 2015 rispetto al 2007 (ultimo anno prima della crisi di Lehman Brothers). Ma contemporaneamente la repressione della domanda interna, ottenuta da un lato con il blocco della spesa pubblica e dall’altro con quello dei salari reali (con il doppio fine di rendere più competitive le esportazioni e comprimere le importazioni)[23], ha sottratto al Pil 130,1 miliardi (-7,5%). Rispetto al 2007, dunque, il Paese si ritrovava nel 2019 con 43,6 miliardi in più di avanzo commerciale (frenato comunque da un aumento di 25,2 miliardi delle importazioni, rivolte in misura crescente a beni di investimento), ma con 13,1 miliardi in meno di consumi della pubblica amministrazione, 18,2 miliardi in meno di consumi delle famiglie e 73,5 miliardi in meno di investimenti, pubblici e privati (-38,6% quelli pubblici, -16,3% quelli privati). In altri termini, ogni miliardo aggiuntivo di avanzo commerciale è costato più del doppio in termini di rinuncia a consumi, servizi pubblici e soprattutto investimenti, ovvero rinuncia alla crescita e al futuro.

Oggi, nel corso di una pandemia ancora in attesa di una diffusione capillare di farmaci risolutivi, l’Italia vive una stagione di cui non si conosce né l’esito né la durata, che vede però momentaneamente sospesi (in attesa di riforma) i controlli europei sui bilanci pubblici. La sospensione consente al Governo di varare, anche grazie ai fondi messi a disposizione dall’Europa, un cospicuo programma di investimenti pubblici che, se ben congegnato e inquadrato in un disegno intelligente di politica industriale, potrebbe finalmente costituire il punto d’avvio di una fase di ripresa dell’economia – e quindi anche degli investimenti privati – volta a neutralizzare la “legge del meno uno” e a ravvivare, tramite prospettive di crescita più rosee, la propensione all’investimento delle imprese. Ma a ciascuno spetta la sua parte.

I capitalisti italiani, ammonisce l’ex direttore generale della Banca d’Italia Pierluigi Ciocca, “sono chiamati a far leva, più che sui trasferimenti statali, sui loro patrimoni, che sono cospicui e per superare le attuali difficoltà andrebbero investiti nell’azienda”[24]. Se da un lato lo Stato si astiene dall’imporre una vera imposta patrimoniale, dovrebbe dall’altro quantomeno “evitare di contribuire ulteriormente al loro sterile arricchimento con trasferimenti a fondo perduto di risorse da ultimo prelevate dal reddito dei contribuenti, soprattutto lavoratori e pensionati”, oppure con risorse prese a prestito dall’Unione Europea o dai mercati, che comunque dovranno essere restituite e con gli interessi. Nell’attesa che il Governo vari e che lo Stato dia attuazione al Piano nazionale di ripresa e resilienza, spetta alle imprese il compito di investire in Italia e nelle attività reali i rilevanti profitti realizzati negli anni precedenti, e al sindacato quello – di grande rilievo macroeconomico – di chiedere con forza non solo il rinnovo dei contratti scaduti, ma aumenti salariali tali da sostenere la ripresa della domanda interna falcidiata dalla crisi senza scaricarne il costo sulle finanze pubbliche.

Riferimenti bibliografici

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[1] Tra i primi a segnalare il problema del declino economico dell’Italia si evidenziano Gallino (2003, 2006), Sylos Labini (2004), Boeri et al. (2005), Milone (2005), Tronti (2005, 2006), Saltari e Travaglini (2006). Purtroppo, però, queste analisi non hanno trovato l’eco che la gravità del problema affrontato avrebbe meritato, né nella stampa, né nel dibattito pubblico e sindacale, e ancor meno in quello politico che, senza grandi differenze di schieramento, si è sinora dimostrato incapace di aprire un’indagine seria e approfondita su cause e rimedi del declino, e quindi di porre in essere misure efficaci per contrastarlo.

[2] E non soltanto, dato che gli investimenti fissi includono anche i prodotti di proprietà intellettuale, come i brevetti, i prodotti di ricerca e sviluppo, il software e le basi dati ecc.

[3] Inoltre, è difficile seguire nel tempo gli specifici effetti di una determinata coorte di investimenti nel corso degli anni, perché i risultati di un determinato investimento possono interagire contabilmente con quelli positivi di altri investimenti o con quelli negativi dell’obsolescenza di altri investimenti ancora. Per una sintetica rassegna di alcuni aspetti metodologici del problema, si veda Di Giacinto, Micucci e Montanaro (2010).

[4] Sul tempo di entrata a regime degli investimenti in termini di effetti sulla crescita della produttività, si vedano gli esercizi econometrici di Paolo Sylos Labini analizzati da Corsi e Guarini (2007). Sulla complementarità tra investimenti in nuove tecnologie e necessità di adeguamento dell’organizzazione dell’impresa, Milgrom e Roberts (1990), che individuano un ritardo da due a quattro anni per la messa a regime dell’innovazione.

[5] Ciccarone e Saltari (2015) evidenziano come il basso contenuto di investimenti in nuove tecnologie spieghi in larga misura il ridotto effetto dell’insieme degli investimenti delle imprese italiane sulla crescita dell’economia.

[6] Il carattere subottimale dell’Eurozona come area valutaria è ben evidenziato da Krugman (2013).

[7] Su questo aspetto, che si è tradotto in una prolungata violazione di un’altra “regola aurea”, quella della contrattazione (che prevede l’invarianza della distribuzione funzionale del reddito), comportando una decurtazione dei salari per un importo cumulato di più di 900 miliardi a prezzi del 2010, si vedano, tra gli altri, Ricci e Tronti (2018) e la bibliografia lì citata. Sui rapporti tra regolazione del mercato del lavoro, investimenti e produttività, si rimanda a Calcagnini, Giombini e Travaglini (2018).

[8] Spanò (2020), Ciocca (2020).

[9] Un fallimento del mercato di questa portata richiede indubbiamente l’intervento della mano pubblica con vigorose politiche anticicliche che però, come ha illustrato con drammatica evidenza il “salvataggio” della Grecia, sono manifestamente assenti dall’armamentario delle politiche europee. Il programma Next Generation EU sembra presentare i segni di un certo ravvedimento, dettato dall’emergenza epidemica e climatica. Ma è ancora presto per parlare di un vero cambiamento di rotta dell’Unione Europea rispetto alla fede mercatista che ha costituito la stella polare della sua costruzione.

[10] In particolare, sulla diffusione in Italia di tecnologie Engel-superiori e sugli effetti economici dei rapporti di subfornitura delle imprese meccaniche italiane rispetto a quelle tedesche, si veda Romano e Lucarelli (2017). 

[11] Si noti che entrambi gli indicatori sono incidenze percentuali, la prima riferita al valore aggiunto, la seconda al margine operativo. Come tali, risentono in misura relativamente limitata della caduta del valore aggiunto. 

[12] International Monetary Fund (2020), p. X e, in particolare, pp. 31-52.

[13] Il legame forward-looking tra gli investimenti privati e le aspettative di profitto, piuttosto che quello con i profitti realizzati, è sottolineato da Keynes (1936).  

[14] In proposito l’autore ricorda bene che già molti anni fa Giuliano Amato segnalava pubblicamente che la globalizzazione dei commerci e la liberalizzazione dei movimenti di capitale indebolivano significativamente nei confronti delle imprese non solo i sindacati ma anche i governi dei paesi sviluppati, sottoposti continuamente al rischio, se non alla minaccia, della delocalizzazione delle attività o quanto meno della sede fiscale.

[15] Si tratta della visione standard della teoria neoclassica, che vede nella concorrenza lo stimolo principale all’innovazione e quindi alla produttività totale e alla crescita. Per una riproposizione relativamente recente nell’ambito della teoria delle “riforme strutturali”, si veda Blanchard e Giavazzi (2003).

[16] Secondo la rilevazione sull’innovazione nelle imprese dell’Istat, se il 58% di quelle con almeno 250 addetti hanno adottato innovazioni nel 2017, per quelle tra i 50 e i 249 addetti la percentuale scende al 49% e per quelle tra i 10 e i 49 addetti al 32%. Per le microimprese (sotto i 10 addetti) il dato non è rilevato.                

[17] In Italia, tra il censimento del 1991 e quello del 2011 si sono create 1 milione e 126 mila imprese, con un aumento di soli (se paragonati alle imprese) 1 milione e 78 mila addetti: per il 98% si tratta infatti di microimprese (sotto i 10 addetti e spesso senza dipendenti). La dimensione occupazionale media delle microimprese (4 milioni e 215 mila), in cui nel 2011 lavorava il 47 per cento della manodopera (7 milioni e 700 mila addetti), è così scesa a 1,8 addetti: decisamente troppo piccola per procedere a significativi investimenti individuali in conoscenza, innovazione, internazionalizzazione. Sugli effetti negativi su investimenti, produttività e crescita dell’eccessiva presenza di microimprese nell’economia italiana, si veda Costa, De Santis, Dosi, Monducci, Sbardella e Virgillito (2020). Esiste tuttavia, anche per le microimprese, la possibilità di ottenere vantaggi cospicui dalla costituzione di consorzi o altri tipi di raggruppamento che abbattano i costi di alcune funzioni fondamentali (accesso al credito, marketing, internazionalizzazione, formazione e sicurezza e altro). Tronti (1997) analizza, ad esempio, il caso di Federtrasporti Bologna, un consorzio di circa 60 piccole aziende di trasporto, che costituì un esperimento di successo anche a confronto con le ristrutturazioni di grandi imprese come Fiat, Telecom e Ansaldo, rilevante soprattutto a fronte della grande numerosità delle microimprese presenti in Italia.

[18] Su questo aspetto resta fondamentale il lavoro di Paolo Sylos Labini (1957).

[19] La “funzione di produttività”, ispirata all’economia classica in aperto contrasto con la “funzione di produzione” degli economisti neoclassici, viene proposta da Sylos Labini a più riprese, in studi realizzati e pubblicati nell’arco di un intero ventennio (dal 1984 al 2004). Per una sintesi di questi studi si rimanda alla citata analisi di Corsi e Guarini (2007).

[20] La cosiddetta regola aurea della contrattazione salariale è un vecchio e solido principio che ha ispirato la contrattazione salariale nel Trentennio glorioso e probabilmente anche prima (se ne veda l’esposizione, ad esempio, in Leon, 2014). Purtroppo, la vulgata mainstream, favorita dalla fase di stagflazione degli anni Ottanta del secolo scorso, l’ha bandita dalle prassi negoziali – in un primo momento nell’intento di fare assorbire ai salari l’inflazione importata causata dagli shock di prezzo del petrolio e delle materie prime, poi per il prevalere di una visione miope, parziale e statica, della concorrenza globale e dell’equilibrio economico dell’impresa. Il fondamento della regola aurea delle politiche salariali resta però molto solido perché, se a livello microeconomico assicura l’incentivo delle parti sociali a collaborare al buon esito dell’impresa, a livello macroeconomico favorisce il massimo incremento dei consumi delle famiglie senza indurre tensioni inflazionistiche sul rapporto tra profitti e valore aggiunto (in particolare, si veda il modello di crescita bilanciata di Nicholas Kaldor: Kaldor, 1957). In una fase come quella attuale, in cui la crescita globale rallenta e gli scambi internazionali sono minacciati dalla pandemia e dai conflitti commerciali, la regola aurea dovrebbe essere reintrodotta e semmai superata nella direzione opposta, di incrementi delle retribuzioni leggermente al di sopra di quello della produttività, a sostegno di uno sviluppo accelerato dei mercati interni e di una pur minima ripresa dell’inflazione.

[21] Per la proposta della “produttività programmata”, si vedano Tridico (2018) e gli autori lì citati. Nella situazione italiana, oltre che nella contrattazione nazionale di categoria, la produttività programmata andrebbe sviluppata nel quadro di un programma di ampia diffusione della contrattazione territoriale, possibilmente coinvolgendo istituzioni amministrative, di ricerca e finanziarie, al fine di rafforzare la capacità di promozione dello sviluppo dei territori. 

[22] Sul tema del real wage cap implicito nel malfunzionamento del modello di contrattazione salariale italiano, il rimando è a Ricci e Tronti (2018) e Tronti (2019).

[23] Sono questi i lineamenti del modello di crescita “mercantilista povero” che l’Italia ha seguito da molti anni, e con più vigore dalla crisi dello spread (2011), costruito su guadagni di competitività internazionale fondati sull’impoverimento del lavoro (v. Tronti, 2019).

[24] P. Ciocca (2020). L’autore si spinge fino a porre la condizione che qualunque trasferimento alle imprese preveda un corrispettivo ingresso del pubblico nella compagine azionaria dell’azienda beneficiaria.

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