USA, Giappone, Europa: politiche economiche alternative a confronto

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Tr4Durante la crisi economica, iniziata nel 2007, due maggiori sfide sono emerse: l’aumento della disoccupazione, congiuntamente all’aumento del debito pubblico, e la crescente instabilità finanziaria che minaccia lo sviluppo economico. In questo contesto, l’Europa, e l’area Euro in particolare, sembra bloccata in una trappola che causa stagnazione, senza investimenti privati e con policy makers che si rifiutano di fare politiche per la ripresa della crescita economica. Di fatto, mentre le altre maggiori economie avanzate (USA e Giappone) gestiscono la crisi con politiche espansive, i governi dell’Area Euro si interessano unicamente della stabilità dei prezzi. Nel 2014 la situazione sembra essere molto chiara: Giappone e Stati Uniti sono usciti dalla crisi: hanno ridotto la disoccupazione e hanno avviato una solida ripresa economica attraverso politiche pubbliche espansive, visibili sia nell’aumento della spesa pubblica e nell’aumento del deficit, sia nell’allentamento dei vincoli monetari, con conseguenti tassi di interesse molto bassi, vicinissimi allo zero ormai da qualche anno. Il Giappone in particolare è venuto fuori dal suo ventennale problema di deflazione, raggiungendo obiettivi di tassi di inflazione deliberatamente fissati dalla Bank of Japan (BoJ) al 2 %. Allo stesso modo, negli Stati Uniti l’inflazione non è considerata un problema, mentre gli obiettivi occupazionali sono stati perseguiti con maggiore coerenza attraverso una aggressiva politica di quantitative easing della Fed. Al contrario, nell’UE, lo spettro dell’inflazione per lo più diffuso dalla Germania, è stato predominante, e le conseguenti politiche monetarie e fiscali operate dalla BCE e dai governi degli stati membri, sono state molto prudenti, con attenzione principale ai deficit dei governi nazionali.  Tutto ciò ha condotto, paradossalmente, a livelli preoccupanti di deflazione, nell’Area Euro. Nel 2014 il rischio di una spirale di deflazione è diventato reale, con l’indice medio dei prezzi vicino allo zero, e in alcuni paesi, come l’Italia, sotto lo zero.

Figura 1 –Giappone, USA e Area Euro (EA) a confronto nel 2014

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Fonte: elaborazione dell’autore su dati Eurostat e IMF

I quattro grafici della figura 1 di sopra evidenziano una serie di relazioni, marcatamente di tipo keynesiano, tra deficit, debito, inflazione e disoccupazione: il Giappone, seguito dagli Stati Uniti, aumenta la spesa pubblica e ottiene i risultati attesi, riducendo  la disoccupazione e favorendo la crescita economica; nel caso del Giappone, inoltre, il risultato è ancora più interessante, poiché  nel quadro del cosiddetto approccio economico che ormai va sotto il nome di “Abenomics” ha raggiunto nel 2014 tassi di inflazione vicini al 3% e disoccupazione molto bassa. Al contrario, l’Area Euro preferisce politiche di riduzione della spesa pubblica e di contenimento del debito degli stati membri, cadendo però in una situazione di alta disoccupazione e stagnazione del reddito. E’ anche possibile identificare una chiara curva di Philips tra inflazione e tasso di disoccupazione per i paesi analizzati (gli Stati Membri dell’Area Euro sono considerati come un solo paese attraverso i valori medi), in grado di dare speranza ai responsabili delle politiche economiche disposti a ridurre la disoccupazione. Per quanto riguarda la crescita economica possiamo osservare gli stessi risultati: gli Stati Uniti, seguiti dal Giappone, hanno intrapreso un sentiero di crescita economica più sostenuto, mentre la zona euro è praticamente stagnante come dimostra la figura 2 in basso.

Figura 2 – Deficit e crescita economica in Giappone, USA e Area Euro (EA) tra il 2007 e 2014

 

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Fonte: elaborazione dell’autore su dati Eurostat e IMF

Il Giappone, nonostante il suo elevato debito pubblico (circa 240% del Pil), così come anche gli Stati Uniti (che hanno un debito del 125% del Pil), non evitano di attuare politiche di bilancio espansive al fine di contenere la disoccupazione dopo la recessione del 2008/09. Sia la Banca Centrale del Giappone che la Fed negli Stati Uniti collaborano con i loro governi, allentando le politiche monetarie, riducendo i tassi di interesse, immettendo denaro nel sistema per contribuire alla realizzazione di performance migliori rispetto alla zona euro.

Contrariamente alla Fed e alla BoJ, l’Unione europea, e in particolare la zona euro, attraverso le sue istituzioni economiche e monetarie, ha mantenuto i tassi di interesse relativamente più elevati[1]. Ha inoltre immesso nel sistema meno liquidità e non ha attuato quelle politiche espansive che la particolare situazione economica di crisi avrebbe invece richiesto come ad esempio l’emissione di obbligazioni da parte della Banca Centrale Europea per finanziare investimenti produttivi, o un programma di acquisto del debito sovrano degli Stati membri in difficoltà. Inoltre, l’UE non ha fatto nulla in termini di politiche dal lato della domanda, ed al contrario ha introdotto una serie di norme attraverso accordi intergovernativi, a livello comunitario, più severe in materia di austerità, di bilancio e di spesa pubblica.

In conseguenza a queste politiche, i risultati sono stati i seguenti: maggiore disoccupazione e minore crescita economica (o stagnazione) in Europa, e crescita economica e dell’occupazione in Giappone e negli Stati Uniti. L’Indice di Performance che appare di seguito (fig. 3), è una combinazione di tassi di crescita economica e tassi di disoccupazione, e mette in evidenza le differenze di performance tra USA, Giappone e  l’Area Euro (EA).

 

Figura 3 – L’indice di Performance in Giappone, USA e Area Euro (EA)

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Fonte: elaborazione dell’autore su dati Eurostat e IMF

Il grafico di sotto (fig 4) è chiaro su questo tema, come aveva già dimostrato Martin Wolf nel 2012 con i dati disponibili fino a quel momento. Lo stesso esercizio svolto con i dati disponibili oggi conferma l’ipotesi di Wolf: più grande è l’aggiustamento strutturale, maggiore è il calo del PIL. Nel 2012, Wolf ha stimato che per ogni punto percentuale di aggiustamento strutturale, il PIL si riduce dello 1,5%. Nella mia stima i risultati sono essenzialmente gli stessi su un periodo leggermente diverso. In primo luogo ho calcolato, tra gli SM della zona euro, l’aggiustamento strutturale nel periodo 2009-2014.[2] Le politiche di austerità sono iniziate tra il 2009/2010; allora, ho valutato il loro impatto sulla crescita economica dal 2010 al 2014. La stessa relazione negativa viene identificata tra l’aggiustamento strutturale e il PIL: più forte è l’aggiustamento strutturale (cioè più profonda è l’austerità), minore è la crescita del PIL (o più profonda la recessione).

 

Figura 4 – L’impatto dell’austerità sulla crescita del PIL nei paesi dell’area euro

 

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Fonte: elaborazione dell’autore  su dati FMI

Il motivo è semplice: le politiche di riduzione del deficit, attuate durante i periodi di recessione, riducono ulteriormente la domanda aggregata e contribuiscono all’ulteriore calo del Pil. Il rapporto debito/PIL poi peggiora a causa del denominatore della frazione che diminuisce. Inoltre, contribuiscono anche a diminuire la riduzione delle entrate fiscali, a causa di un calo del gettito fiscale e dell’occupazione.

Ad esempio, nel caso specifico dell’Italia, che ha sofferto, soprattutto durante il 2011 e il 2012 di attacchi speculativi e di aumenti degli spread sui propri titoli di stato  rispetto a quelli tedeschi, il prezzo pagato, per la mancata azione di una Banca Centrale, è stato enorme. Inoltre, al fine di rispettare le raccomandazioni dell’Unione europea, e di ridurre il deficit e la spesa pubblica, sono state implementate politiche di rigore che hanno aggravato la situazione occupazionale, la dinamica della domanda aggregata e in ultima analisi anche il Pil, senza vantaggio alcuno neanche per il debito pubblico che non si è ridotto ma al contrario è continuato ad aumentare. In altre parole, rispettare il vincolo del 3% del deficit (o anche quello strutturale dello 0,5% imposto dal nuovo trattato sulla stabilità, TSCG) non è servito a nulla. Oggi è chiaro a molti che queste manovre restrittive non hanno portato al raggiungimento di quei due obiettivi per i quali queste politiche sono state implementate, vale a dire: la riduzione del debito pubblico e la crescita economica. Al contrario, le performance  in questo senso sono piuttosto negative, come indica la tabella seguente.

Tabella 1 – Principali indicatori macroeconomici in Italia

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Quindi, le politiche di austerità contribuiscono drammaticamente al peggioramento della situazione. Esse contribuiscono alla riduzione della dimensione della economia nazionale, e alla riduzione dei posti di lavoro. Inoltre, esse contribuiscono a distruggere capacità produttiva e ridurre ulteriormente la produzione industriale. Infine, gli effetti della spesa pubblica e della politica fiscale, devono essere valutati anche rispetto a obiettivi sociali quali la riduzione della povertà e l’occupazione.Fonte: Commissione Europea

 

 

[1] Solo nel mese di settembre 2014, la BCE ha tagliato finalmente il tasso di interesse raggiungendo lo storico minimo dello 0,05 %, superando la resistenza tedesca. Questa era una misura attesa da tempo, che permette ai tassi europei di convergere verso quelli americani e giapponesi.
[2] L’aggiustamento strutturale è il disavanzo delle amministrazioni pubbliche corretto per il ciclo. In questo modo il cambiamento della politica fiscale rappresenta i risultati della politica di bilancio, piuttosto che gli effetti ciclici.

 

 

 

*Università Roma Tre, Dipartimento di Economia

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