Manovra economica, debito e crescita in Italia

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Political and social notes

Negli ultimi anni l’austerità ha depresso l’economia italiana e fatto crescere il debito pubblico. L’Italia sta per varare ora una politica più espansiva e, secondo l’analisi di Pasquale Tridico e Giacomo Bracci, la manovra spingerà la crescita e ridurrà il rapporto debito-Pil.

L’Italia non è affatto un paese spendaccione, o che ha vissuto sopra le sue possibilità come è stato più volte detto: non è quindi un paese che si merita una cura dimagrante. Per dirlo basta dare uno sguardo ai dati. Il dato sicuramente più importante, come sanno gli economisti, è il saldo di bilancio primario, ovvero la differenza fra spesa pubblica e tassazione, che è in attivo da due decenni. Come ha ricordato un economista francese, molto influente in Europa, Jean Pisani-Ferry su Project Syndicate proprio lo scorso maggio, il debito pubblico italiano non è il risultato di disavanzi primari scellerati: il saldo di bilancio primario, con l’eccezione del 2009, è stato in attivo per oltre 20 anni. Ciò significa, in sostanza, che i governi italiani hanno tassato più di quanto hanno speso per consumi e investimenti, ed è stata la piuttosto la spesa per interessi a far crescere il disavanzo e il debito. Come si evince dalla Figura 1, il saldo primario di bilancio dell’Italia è stato costantemente al di sopra del saldo primario francese dal 1995 al 2018, restando peraltro molto al di sopra di quello spagnolo dopo il 2007, e di sopra a quello tedesco, almeno fino al 2006, e poi sostanzialmente in linea con quest’ultimo. Dalla metà degli anni ’90, perciò, l’Italia ha praticato una sostanziale politica di contenimento del bilancio pubblico, cumulando in 23 anni un avanzo primario di +54%, mentre la Francia ha cumulato nello stesso periodo un disavanzo primario di -21%. Peggio della Francia la Spagna, mentre la Germania un po’ meglio, ma comunque inferiore rispetto all’Italia come è evidente dalla figura in basso.

Questo tuttavia non ha aiutato la crescita del Pil italiano. Anzi. Probabilmente, come sostengono in molti, e non solo economisti keynesiani, questo ha contribuito a una dinamica stagnante del Pil e ad un aumento del rapporto debito/Pil.

Figura 1. Fonte: Database AMECO – Commissione Ue

Sebbene il debito italiano sia molto elevato in rapporto al Pil, il disavanzo pubblico italiano non ha generato procedure di infrazione in questi anni e anche la manovra economica del governo Conte lo mantiene al 2,4% del Pil per il 2019, al di sotto del limite del 3% previsto dal braccio correttivo del Patto di Stabilità e Crescita europeo. Come ha ricordato Riccardo Realfonzo in un recente articolo su economiaepolitica.it a commento della Nota di Aggiornamento al Def, la manovra manifesta però una inversione di tendenza sia rispetto alle politiche di austerità o di neutralità dei governi precedenti. Il governo infatti sceglie la via dell’espansione fiscale per ridurre il rapporto debito/Pil tramite la crescita che prevede di generare attraverso una serie di interventi. Si tratta di una soluzione di discontinuità rispetto al quadro macroeconomico tendenziale, che vedrebbe il disavanzo all’1,2% nel 2019, e che come scrive Realfonzo aumenta il disavanzo di circa 30 miliardi rispetto alle previsioni del Documento di Economia e Finanza di aprile del governo Gentiloni.

Il governo sostiene che la manovra sarà in grado sia di far crescere l’economia che di stabilizzare il debito, e di farlo scendere. Per verificare tale affermazione, ci aiutano sia la teoria economica che la matematica. Non c’è dubbio, né discordia tra gli economisti, circa la formula (B), (ripresa recentemente da importanti economisti quali Domenico Nuti e ancor prima da Alberto Bagnai) che descrive come il rapporto debito/Pil si stabilizza, seguendo dalla seguente espressione:

Dove D è il rapporto Debito/Pil nell’anno 2018, C è il tasso di crescita nominale del Pil nell’anno successivo. Un deficit più basso del risultato della formula B, porta ad una riduzione del rapporto Debito/Pil.

Vediamo quindi i numeri della Nota di aggiornamento al DEF tra il 2018 e il 2019: il rapporto Debito/Pil (D) nel 2018 è 130.9%. Il tasso di crescita nominale del PIL nel 2019 è previsto al 3,1% (di cui 1,5% dovuta all’inflazione e 1,6% alla crescita del prodotto). Quindi avremo:

B=130,9*0,031/(1+0,031)=3,93%

Come volevasi dimostrare, B, ovvero 3,93% è maggiore del deficit fissato a 2,4%.

Un risultato simile si ottiene anche se la crescita reale del PIL dovesse scendere fino all’1%, stima considerata troppo bassa anche da altre istituzioni internazionali quali FMI e Commissione UE. In questo scenario, e con l’inflazione all’1,6%, B sarebbe uguale a 2,7%, comunque ancora superiore a 2,4% e sufficiente per far scendere il Debito. Quindi, anche con un tasso di crescita reale inferiore a 1,5% (e/o anche con un tasso di inflazione inferiore a quello stimato, e quindi con un tasso di crescita nominale fino a 2,5/2,6), il Debito sarebbe sostenibile.

Inoltre, la Commissione europea chiede per il 2019 un aggiustamento del deficit strutturale di 0.6%, mentre nelle stime del Governo il saldo strutturale diminuirà dello 0.8%. Le stime del deficit strutturale si basano su una stima del Pil potenziale – ovvero il livello del Pil che un Paese otterrebbe utilizzando al massimo livello possibile i fattori produttivi, capitale e lavoro – su cui gli economisti si dividono da anni, e che è stata più volte contestata anche ufficialmente dai tecnici del Ministero dell’Economia e delle Finanze negli anni scorsi. Il principio sottostante a questa metodologia è che gli stati possono spendere di più quando l’output gap è negativo ed il Pil effettivo è inferiore al Pil Potenziale, e di meno quando il Pil effettivo è superiore al Pil potenziale e l’output gap è positivo. Il Pil potenziale è associato ad un tasso di disoccupazione “ottimale” che indica il minimo livello di disoccupazione al di sotto del quale si andrebbe verso un’accelerazione dei salari, considerati come una proxy dell’inflazione (NAWRU). Questo tasso per l’Italia si attesta al 10% nel 2018, un livello decisamente troppo alto secondo molti economisti che osservano come in altre aree economiche avanzate tassi di disoccupazione decisamente più bassi siano associati ad un livello di inflazione basso e stabile: è il fenomeno secondo cui nella maggior parte delle aree avanzate si osserva un sostanziale appiattimento della curva di Phillips, che tradizionalmente dovrebbe invece mostrare una relazione inversa fra salari (e quindi prezzi) e disoccupazione.

Inoltre, per i noti effetti di isteresi (descritti recentemente anche da De Long-Summers e da Fatas-Summers), il prodotto potenziale futuro può essere incrementato da politiche che garantiscono un minore output gap oggi; una politica fiscale di breve periodo, con disavanzi temporanei, può far aumentare il prodotto potenziale.

La metodologia europea infine, sottostima il Pil potenziale italiano e lo stesso tasso di disoccupazione “ottimale” segue da molto vicino il tasso di disoccupazione effettivo, non permettendo quindi politiche espansive quando sarebbero maggiormente necessarie. Questo approccio, poi, non considera nelle forze lavoro una larga parte di forze lavoro scoraggiate – composte da chi è senza lavoro ma non lo cerca attivamente – e perciò non riesce a cogliere le reali condizioni del mercato del lavoro, che determinano i margini di manovra del governo.

In questo senso, l’attuazione del Reddito di Cittadinanza associata al potenziamento dei centri per l’impiego costituisce una vera e propria riforma strutturale del mercato del lavoro, nella misura in cui può aiutare a reimpiegare parte di quegli oltre 3 milioni di scoraggiati che da anni non cercano più attivamente lavoro. Come già scritto su queste colonne in un articolo a firma di Pasquale Tridico, Walter Paternesi Meloni e Giacomo Bracci, l’afflusso degli scoraggiati presso i centri per l’impiego permetterebbe di rivedere al rialzo il tasso di partecipazione alla forza lavoro, che nella metodologia europea contribuisce alla crescita del Pil potenziale: si aprirebbe così uno spazio fiscale aggiuntivo che può essere utilizzato per aumentare l’occupazione evitando di far crescere il deficit strutturale a livelli passibili di sanzioni. Il meccanismo, che può apparire complesso, riflette semplicemente la natura strutturale e non soltanto ciclica del reddito di cittadinanza così come è stato congegnato dal governo: si aumenta la produttività complessiva del Paese grazie alla ricostruzione delle competenze e del capitale umano di milioni di persone.

Inoltre, bisogna ricordare la necessità sociale di un provvedimento come il Reddito di cittadinanza, che si configura come un reddito minimo condizionato utile sia ad aggredire gli elevati livelli di povertà, vera emergenza nazionale, che a favorire il reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro; strumento simile a quello esistente nella maggior parte dei paesi europei e che la stessa Unione Europea chiede a gran voce nell’art. 14 del nuovo Pilastro Sociale, laddove afferma solennemente che: “Tutti coloro che non hanno risorse sufficienti hanno il diritto a ricevere un reddito minimo che assicuri la dignità della vita in tutti i suoi stadi, e un effettivo accesso ai beni e ai servizi. Per tutti coloro che sono in grado di lavorare, il reddito minimo dovrebbe essere combinato con incentivi ad essere reintegrati nel mercato del lavoro”.

Questa misura, che prevede un finanziamento di 10 miliardi, permetterà a chiunque si trovi a vivere al di sotto della soglia di povertà stabilità dall’Eurostat (9360 euro di reddito annuale) di ottenere un’integrazione di reddito fino a tale soglia. Gli effetti moltiplicativi di tale misura sono evidenti, tanto più laddove il sostegno andrà a beneficiari con reddito nullo o molto basso, e quindi con propensione al consumo pari a 1. L’idea di veicolare il sostegno al reddito attraverso un bancomat, servirà non solo per la tracciabilità dei consumi, ma anche per innescare incentivi a consumare (sono previsti infatti incentivi per il consumo totale del sussidio mensile). Inoltre, ci saranno dei filtri di accesso attraverso l’ISEE e degli aggiustamenti attraverso una scala di equivalenza familiare.  I beneficiari inoccupati, in cambio, si impegneranno a fornire un minimo di ore settimanali in lavori di pubblica utilità per le comunità locali e soprattutto a frequentare percorsi di riqualificazione professionale che permettano di transitare nuovamente verso il mondo del lavoro. Anche la riqualificazione e il potenziamento dei Centri per l’impiego, con la destinazione di 1 miliardo di euro risorse, per l’assunzione di nuove unità operative, avrà effetti moltiplicativi sui consumi sull’occupazione e sul reddito.

Figura 2. Fonte: ISTAT

Inoltre, la manovra prevede il superamento della legge Fornero tramite l’introduzione della “quota 100”: chiunque abbia maturato almeno 38 anni di anzianità contributiva può accedere alla pensione a partire dai 62 anni di età. Oltre a garantire una transizione serena verso il pensionamento, la misura consente di sbloccare un necessario ricambio generazionale, con effetti espansivi sull’occupazione a parità di domanda di lavoro aggregata. Viene introdotta inoltre la “flat tax” con un’aliquota del 15% sugli utili dei professionisti, delle piccole imprese e degli artigiani; al contempo, l’imposta sugli utili d’impresa (Ires) viene tagliata al 15% per le aziende che reinvestono i profitti e assumono lavoratori aggiuntivi. Anche questo intervento può avere importanti effetti espansivi ed un moltiplicatore elevato. Una parte consistente della manovra è inoltre dedicata al rilancio degli investimenti pubblici, già in gran parte finanziati ed appena sbloccati ed allocati sul triennio, sia di carattere infrastrutturale che nell’ambito della ricerca scientifica e tecnologica, e alla promozione di riforme strutturali e incentivi a vantaggio degli investimenti privati e degli ammortamenti, anche qui con effetti moltiplicativi sul reddito Il rilancio delle attività produttive, degli investimenti pubblici e degli incentivi, tuttavia, dovrà passare attraverso il necessario miglioramento dei processi decisionali nella PA, e la necessaria modifica del Codice degli appalti che oggi appare troppo complessa e burocraticamente cavillosa.

Rimane la questione del rifinanziamento del Debito sui mercati, soggetto evidentemente all’andamento del cosiddetto “spread”, il differenziale fra i rendimenti decennali del Bund tedesco e del Btp italiano che viene considerato una misura di rischio Paese. Certamente i tassi d’interesse incorporano le componenti aggiuntive del premio al rischio – rispetto ai tassi dei paesi considerati più “affidabili” (con più alto merito creditizio, in genere quelli della Germania per i paesi dell’Eurozona). Dal momento che non c’è per il nostro Paese un rischio di ridenominazione del debito – che si verifica nel caso in cui il governo decidesse di convertire il debito in una valuta nazionale – né un rischio di inflazione e svalutazione tangibile, l’unico pericolo rimane il ripudio del debito con il rischio di default, o più verosimilmente una ristrutturazione del debito. Il rischio Paese è quindi soprattutto dettato dalla mancanza di liquidità percepita, ovvero il costo che un detentore di titoli di stato deve sostenere per venderli quando è difficile trovare compratori.

È opportuno anche ricordare, come hanno scritto Antonella Stirati e Walter Paternesi Meloni in un articolo su INET Economics, che le dinamiche all’interno degli stessi “mercati finanziari” sono spesso guidate dall’azione di poche e grandi istituzioni finanziarie, che sono sensibili alle tensioni che possono nascere fra uno stato membro della zona euro e le istituzioni europee, in particolare la Banca Centrale Europea. Queste tensioni influiscono in maniera significativa sulla rischiosità dei titoli di stato dei Paesi che ne sono protagonisti a prescindere dai fondamentali di questi Paesi, perché possono implicare un rischio di ristrutturazione del debito o default in un’area valutaria nella quale la Banca Centrale Europea non svolge per decreto il ruolo di prestatore di ultima istanza degli Stati, a differenza di quanto avviene nella maggior parte delle aree economiche avanzate.

Le agenzie di rating (quali Moody, Standard&Poor’s e Fitch) sono considerate i “guardiani” dell’affidabilità ed in un certo senso la garanzia dei mercati. Ma come è possibile affidare a tre grandi agenzie/aziende monopoliste, che da sole controllano circa il 90% del mercato globale, la garanzia per i mercati?  Le stesse agenzie che alla vigilia della crisi del 2008-09, davano il miglior rating possibile alle grandi corporation che da li a poco sarebbero completamente fallite.  Agenzie che erano e tuttora rimangono in pieno conflitto di interesse, poiché suggeriscono prodotti finanziari che loro stesse valuteranno.

Anche la tanto temuta relazione tra tassi sui mutui delle famiglie e “spread” non sembra robusta. Se ci può essere una relazione nel lungo periodo, nel breve periodo questa relazione non sembra esistere come il grafico di sotto suggerisce.

Figura 3. Fonte: Base Dati Statistica – Bankitalia e IMF World Economic Outlook

In questo contesto sembra utile, oltre che giusto, affidarsi alla teoria economica e alle evidenze empiriche per emettere valutazioni. Entrambe ci dicono che le politiche di rientro del debito pubblico dipendono dall’andamento del saldo primario, nel caso dell’Italia previsto pacificamente all’1,3% il prossimo anno, dalla differenza tra la crescita reale del Pil (intorno all’1,5%) e il tasso di interesse reale pagato sul debito pubblico (che per l’Italia si attesta attorno all’1,5% considerando come riferimento i Btp) e dagli andamenti della politica monetaria, che è tuttora è espansiva, sebbene sia previsto un rallentamento del quantitative easing. In queste condizioni, favorevoli, il rapporto Debito/Pil diminuirà, e di conseguenza migliorerà la sostenibilità del debito.

Figura 4. Fonte: Database AMECO – Commissione Ue

Figura 4a. Fonte: Database AMECO – Commissione Ue  

  

         Figura 4b. Fonte: Database AMECO – Commissione Ue

L’aumento del rapporto Debito/Pil da valori vicino al 100% nel 2008 ai valori di circa 130% di oggi è quindi da ascrivere al peggioramento del denominatore del rapporto – il Pil – che ha toccato tassi di crescita negativa del -5% nel 2009 e nel 2012 in corrispondenza delle due grandi recessioni che hanno colpito il Paese, senza crescere a tassi sufficientemente elevati negli altri periodi. Quindi, nonostante i tassi di interesse pari a zero, gli avanzi primari e la politica monetaria accomodante, il rapporto Debito/Pil è aumentato: un fenomeno che chiaramente questo governo vuole evitare attraverso una politica espansiva che possa agire da motore della crescita.

*Università Roma Tre 

**Università di Trento

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