Gli ottant’anni di Augusto Graziani

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Political and social notes

Si sa che il mondo della politica e i governi spesso non danno ascolto alla migliore accademia*. Ma almeno sul ring della teoria economica – come ha sottolineato Paul Krugman sul “New York Times” – gli economisti favorevoli alle politiche pubbliche espansive, i keynesiani, hanno finito col mettere al tappeto i sostenitori dell’austerità. Sarebbe allora il caso, passata la ventata liberista degli ultimi due decenni, che tante volte ha fatto egemonia anche in campo progressista, che tutti corressero a rileggere i classici dell’economia critica. E in Italia non si può che ripartire dalle pagine di Augusto Graziani, il nostro economista più autenticamente keynesiano, che proprio oggi, 4 maggio, compie ottanta anni.

D’altra parte Graziani – già presidente della Società Italiana degli Economisti, una breve parentesi da Senatore, maestro di tante generazioni di studiosi – si è da tempo assicurato un posto nella storia del pensiero economico. La sua fama è principalmente legata agli sviluppi della teoria monetaria della produzione, che riprende e rielabora le opere di John Maynard Keynes. Il lavoro teorico di Graziani – culminato nel volume The Monetary Theory of Production, pubblicato a Cambridge nel 2003, anche conosciuto come teoria del circuito – pone le interrelazioni tra gli attori sociali concreti ad oggetto dell’analisi, in contrasto con l’astratto individualismo del pensiero liberista. Nel suo approccio, l’economia di mercato si caratterizza per la natura monetaria e per la presenza di incertezza. E anche le conclusioni teoriche cui giunge sono in conflitto con il rassicurante mainstream. Secondo Graziani, infatti, il mercato non assicura spontaneamente gli equilibri tra domanda e offerta, non genera piena occupazione, non fa coincidere la distribuzione del reddito con la produttività dei fattori. Da qui la necessità di uno Stato che funga da regolatore e che possa entrare nella sfera economica anche per sostenere la domanda in chiave anticiclica.

Sulla base del suo impianto teorico Graziani è stato in grado di svelare – anche con i suoi articoli ospitati su “L’Unità” tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 – le magagne dello sviluppo economico italiano. Ad esempio, chiarì sin da allora quali fossero le ragioni dell’esplosione del debito pubblico italiano, che a partire da valori inferiori al 60% del Pil nel 1980 in un quindicennio andò a superare il 120% del Pil. Soprattutto chiarì che la forte crescita del debito pubblico italiano non andava tanto spiegata con la “finanza allegra” – e quindi con disavanzi primari – bensì con l’elevato costo del debito pubblico dovuto all’elevato regime dei tassi di interesse. E questo a sua volta era l’esito di un problema strutturale di squilibrio dei conti con l’estero, legato a una insufficiente dinamica delle nostre esportazioni che andava compensata con afflussi di capitale. Il problema del debito pubblico italiano, dunque, coincideva in grande misura con l’inadeguatezza dell’apparato produttivo nazionale, di cui egli intravide il futuro declino prima di ogni altro economista. Già all’epoca di quegli scritti, Graziani evidenziava l’urgenza di una strategia di politica industriale che spingesse le nostre imprese verso un salto tecnologico e dimensionale, e metteva in guardia che inserire all’interno di una unione monetaria “un paese a struttura industriale tecnologicamente debole, che si regge nel mercato soltanto per la compressione del costo del lavoro, potrebbe rilevarsi un obiettivo assai arduo da conseguire”.

Molto altro c’è da imparare rileggendo Graziani. In lui c’è la piena consapevolezza del nesso tra crescita della disuguaglianza e crisi, e in particolare l’idea che la riduzione della quota dei salari nel Pil possa avere effetti depressivi sulla domanda e dunque sui livelli di attività dell’economia; una tesi questa ripresa persino da economisti mainstream come Fitoussi e Stiglitz. Per non parlare della sua ineguagliata lezione – ribadita anche nel classico Lo sviluppo dell’economia italiana del 1998 – sulle tendenze spontanee all’allargamento del dualismo tra Centro-Nord e Mezzogiorno, in assenza di incisive politiche industriali.

Insomma, c’è molto da rallegrarsi che la teoria economica di qualità sia nuovamente in auge. Per quanti si fossero distratti, è tempo di tornare a leggere Graziani.

*Pubblicato anche da L’Unità del 4 maggio 2013.

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