Il dibattito economico su globalizzazione e distribuzione

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Diverse voci autorevoli[1] hanno documentato la progressiva caduta nella quota di reddito destinata a remunerare il lavoro (labor share) che si registra a partire dagli anni Ottanta nei Paesi industrializzati e in modo accentuato nell’Europa continentale. Tra le spiegazioni generalmente avanzate in letteratura per comprendere tale fenomeno si fa spesso riferimento alla globalizzazione dei mercati, la quale avrebbe avuto ripercussioni negative sulle retribuzioni e/o sui tassi occupazionali, soprattutto dei lavoratori poco qualificati. In particolare, il legame tra andamento del labour share e globalizzazione nasce dall’osservazione che la progressiva caduta nella quota di reddito destinata al lavoro è coincisa con l’ integrazione delle economie dei Paesi industrializzati con i Paesi di nuova industrializzazione (NIC).

L’approccio standard nell’analizzare gli effetti del commercio internazionale si propone di studiare in che modo l’apertura agli scambi internazionali incida sulle quote distributive e sulle remunerazioni di lavoro e capitale con riferimento a modelli teorici secondo cui ciascun Paese si specializza in quelle produzioni in cui ha un vantaggio comparativo[2]. Ad esempio, i Paesi industrializzati si specializzerebbero nella produzione di beni ad alta intensità capitalistica per cui la remunerazione e l’utilizzo del lavoro tenderebbe a ridursi.

Il teorema di Heckscher-Ohlin
Tale teorema individua alcuni criteri in base ai quali un Paese deciderebbe di esportare un bene piuttosto che un altro. Tra le numerose ipotesi avanzate vi è quella che tutti i paesi dispongano delle stesse tecnologie, che in tutti i paesi vi sia pieno impiego del lavoro (cioè non c’è disoccupazione) e pieno utilizzo della capacità produttiva e in ciascun Paese il valore totale delle importazioni pareggi il valore totale delle esportazioni.

Sulla base delle assunzioni appena esposte si argomenta che un Paese diviene esportatore del bene nella produzione del quale viene impiegato più intensamente il fattore produttivo (lavoro o capitale) di cui si dispone in modo relativamente più abbondante e meno costoso e diviene importatore del bene nella produzione del quale viene impiegato in modo relativamente più intenso il fattore di cui si dispone in modo relativamente minore o più costoso.

Il teorema del pareggiamento dei prezzi dei fattori
Il teorema del pareggiamento dei fattori[3] implica che la conseguenza inevitabile del tipo di scambio internazionale descritto attraverso il teorema di Heckscher-Ohlin è l’uguaglianza delle remunerazioni di capitale e lavoro tra i due Paesi. Tale risultato è derivato dal seguente ragionamento: in seguito al commercio internazionale nel paese dove il capitale è relativamente più abbondante la specializzazione internazionale verso i beni nella cui produzione si usa più intensamente il capitale porta ad una caduta dei salari mentre nel paese dove il lavoro è relativamente più abbondante tende a diminuire, per ragioni simmetriche, la remunerazione del capitale.

Se la maggior parte della letteratura economica riconosce un ruolo fondamentale a tali modelli per comprendere l’andamento delle quote distributive del reddito, la loro effettiva portata viene ridimensionata dall’individuazione di alcuni limiti teorici ed empirici. Sul piano teorico, si deve tener conto della scarsa plausibilità delle premesse, quali pieno impiego e accesso alle stesse tecnologie. Inoltre, la presenza del capitale tra le dotazioni iniziali dei paesi solleva diversi problemi. In primo luogo va menzionata l’ impossibilità di misurare il valore del capitale prima di conoscere la distribuzione del reddito. In secondo luogo bisogna osservare che la relazione tra l’intensità fattoriale e l’andamento del saggio di profitto non è necessariamente monotona: vale a dire, al crescere del saggio di profitto un settore a relativa maggior intensità di capitale puo’ divenire a minor intensità di capitale e viceversa[4]. Sul piano empirico, si deve osservare che nei teoremi suddetti vengono trascurati alcuni elementi importanti, in primis il volume effettivo dei commerci[5]. Infatti, una gran parte degli scambi commerciali internazionali avviene tra le economie più industrializzate, cioè tra economie che hanno una dotazione di capitale simile e non tra queste e i Paesi di nuova industrializzazione, cosicché una quota consistente delle importazioni dei paesi industrializzati è costituita da beni ad alta intensità di capitale[6]. La teoria di Heckscher-Ohlin potrebbe essere rilevante solo per gli effetti degli scambi tra Paesi che presentano ampie differenze nelle dotazioni dei fattori e che quindi tendono a specializzarsi nella produzione di beni distinti.

Alcuni autori rilevano che il commercio internazionale influirebbe sul prezzo del lavoro in quanto modificherebbe l’ elasticità della domanda di lavoro rispetto a variazioni del salario, rendendo il fattore lavoro domestico più sostituibile con il fattore lavoro estero[7]. Variazioni nella elasticità della domanda di lavoro sarebbero indotti non solo dallo scambio con i NIC ma anche dalla stessa integrazione dei mercati dei Paesi economicamente più avanzati. Considerare le variazioni della elasticità della domanda piuttosto che solamente dei prezzi permetterebbe quindi di incorporare gli effetti del commercio tra i Paesi OECD, che verrebbero invece trascurati applicando i modelli suesposti.

Interpretazioni alternative, invece, osservano che un ruolo determinante nell’evoluzione della distribuzione funzionale del reddito negli ultimi decenni sarebbe stato giocato da fattori diversi rispetto a quelli fin qui menzionati e riconducibili in ultima istanza ad elementi istituzionali. Certe impostazioni teoriche[8] si concentrano su un elemento che, tra tutti, si ritiene caratterizzi il moderno processo di globalizzazione, distinguendolo, ad esempio, dall’integrazione dei mercati dei primi anni del Novecento: il diverso grado di mobilità internazionale del fattore capitale rispetto al fattore lavoro. La diversa mobilità dei fattori produttivi viene ritenuta un elemento cruciale che potrebbe spiegare la contrazione della quota di reddito destinata al lavoro.

Al riguardo, un argomento avanzato è il così detto race to the bottom dei salari, ossia la tendenza dei salari, soprattutto dei lavoratori poco qualificati, ad essere schiacciati in seguito alla pressione esercitata dai bassi salari presenti nelle economie di recente industrializzazione. La mobilità del capitale a livello internazionale può contribuire alla stagnazione dei salari se le imprese trasferiscono le produzioni ad alta intensità di lavoro poco qualificato in Paesi dove possono trovare forza lavoro a basso prezzo[9].

Tale aspetto sarebbe strettamente legato alla questione relativa agli effetti della globalizzazione sulla forza contrattuale delle parti sociali. Se la forza contrattuale dei lavoratori dipende da una serie di fattori, tra cui il costo che il capitale deve sopportare per poter trasferirsi altrove, la mobilità del capitale ridurrebbe sensibilmente la capacità del lavoro di ottenere parte del reddito aggregato prodotto[10]. La relativa facilità di investimenti e delocalizzazioni verso Paesi caratterizzati da una forza lavoro relativamente meno pagata e con una scarsa rappresentanza sindacale si tradurrebbe[11] in un maggior potere contrattuale delle imprese, le quali possono decidere di trasferire altrove la produzione in caso di rivendicazioni da parte dei lavoratori.

In conclusione, la teoria standard del commercio internazionale predice che la globalizzazione possa aver determinato nei paesi industrializzati una contrazione della remunerazione del lavoro, in particolare di quello poco qualificato, poiché questo sarebbe relativamente più costoso nelle economie industrializzate piuttosto che nelle economie di nuova industrializzazione. Una serie di limiti di tipo teorico e empirico sembrano, però, arginare l’effettiva portata di tali argomenti. Impostazioni diverse abbandonano l’approccio tradizionale e si richiamano maggiormente all’esistenza di un conflitto distributivo, osservando che la globalizzazione potrebbe aver inciso sulla natura del conflitto distributivo tra capitale e lavoro, a discapito di quest’ultimo.

[1] World Economic Outlook, Spillovers and Cycles in the Global Economy, April 2007, 167
[2] Si veda Gandolfo, Giancarlo. Elementi di economia internazionale. Torino: UTET, 2002; Salvatore, Dominick. Economia internazionale. Roma: Carocci, 1999.
[3] Samuelson, “International Trade and the Equalization of Factor Prices.” Economic Journal , 58 n. 230 (1948): 163-184.
[4] Si veda Steedman I. (1979) Trade amongst Growing Economies, Cambridge: CUP; Steedman I. (ed.) (1979) Fundamental Issues in Trade Theory, Macmillan, London; S. Cesaratto (2011), Harmonic and Conflict Views in International Economic Relations: a Sraffian view.
[5] Krugman, Paul. “Growing Trade: Causes and Consequences.” Brooking Paper of Economic Activitiy, n.1 (1995): 327-377.
[6] Nel World Economic Outlook, Spillovers and Cycles in the Global Economy, April 2007, p.166 si legge: “the bulk of advanced economies’ import still comes from other advanced economies and likely includes more skilled rather than unskilled products”.
[7] Slaughter, Matthew J. “International Trade and Labor-Demand Elasticity.” NBER Working Paper Series n. 6262 (1997).
[8] Tra gli altri si veda Rodrik, Dani. “Capital Mobility and Labor.” Harvard University. (1998).
[9] Rama, Martìn. “Globalization, Inequality and Labor Market Policies.” The World Bank, June 2001.
[10] Harrison, Ann E. “Has Globalization eroded Labor Share? Some Cross-Country Evidence.” UC Berkeley and NBER, October 2002.
[11] Pollin, Robert. Contours of Descent: U.S. Economic Fractures and the Landscape of Global Austerity. London: Verso Press, 2003.

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