1. La Corte dichiara legittimo un articolo di cui un milione e quattrocentomila cittadini chiedono l’abrogazione
È di pochi giorni fa la pubblicazione della sentenza n. 325 del 2010 della Corte Costituzionale che ha deciso su una pluralità di ricorsi regionali contro l’art. 23 bis del d.l. 112 del 2008, così come modificato dal cd. decreto Ronchi (art. 15 del d.l. 135 del 2009, convertito in legge n. 166 del 2009).
Non v’è dubbio che la Corte costituzionale con questa sentenza abbia difeso il vecchio, ossia il processo di privatizzazione che è stato intrapreso dall’ordinamento italiano a partire dal 1990. La corte non ha tenuto in nessun conto il nuovo vento antiliberista che soffia nel Paese (ma non solo, come dimostrato dall’esempio del comune di Parigi) e che ha portato alla raccolta di ben 1.400.000 per l’abrogazione della citata normativa, la stessa che era contestata dalle regioni. Certo, si potrebbe correttamente obiettare che un organo di garanzia deve essere immune dalle pressioni politiche. Ed è certamente vero, anche se, occorre dire, in altri casi, si pensi alla decisione del 1993 sull’ammissibilità dei referendum elettorali, la Corte si comportò diversamente, modificando la propria giurisprudenza proprio per andare incontro alla richiesta di cambiamento che proveniva dal Paese. Ma questa volta questo non è avvenuto.
Dal punto di vista giuridico, la sentenza può essere divisa in tre parti, di cui una prima scontata, perche la Corte si era già pronunciata su analoghe questioni negli anni precedenti (e si sa che molto difficilmente la Corte cambia il proprio orientamento). Una seconda invece fondata su quelle questioni che sono state sollevate per la prima volta dai ricorsi regionali contro il 23 bis (che sono stati redatti da giuristi di grandissima sensibilità, alcuni dei quali, come Roberto Cavallo Perin, anche impegnati nella redazione del disegno di legge regionale della Puglia per la ripubblicizzzione dell’acqua), attraverso la formulazione di domande del tutto nuove. Ci si sarebbe potuti ragionevolmente attendere dalla Corte, dunque, perlomeno una declaratoria di parziale illegittimità dello stesso art. 23 bis, proprio per la profondità dei ricorsi regionali che erano tra l’altro molto ben argomentati sotto il profilo giuridico e proprio perché il loro accoglimento non avrebbe dovuto comportare alcuna modifica alla giurisprudenza pregressa. Una terza parte, comunque sia, è positiva, sebbene rappresenti poca cosa nell’economia complessiva della decisione.
Per cominciare da quest’ultima parte, mi pare significativo il passaggio in cui la Corte chiarisce che la normativa del 23 bis non è affatto attuativa di obblighi europei: la Corte riconosce infatti che in questa materia vi è un indubbio margine di discrezionalità del legislatore italiano. In questo modo il giudice delle leggi svela la mistificazione compiuta dall’articolo 23 bis, nella parte in cui tale articolo si auto qualificava attuativo del diritto comunitario. Si trattava di una mistificazione, spesso denunciata, anche da chi scrive, molto probabilmente compiuta dal Parlamento per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica la scelta impopolare di privatizzare i servizi pubblici locali attribuendone falsamente la responsabilità all’Unione europea. A tale proposito la Consulta ha infatti affermato chiaramente che «le disposizioni censurate dalle ricorrenti non costituiscono né una violazione né un’applicazione necessitata della richiamata normativa comunitaria ed internazionale, ma sono semplicemente con questa compatibili, integrando una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare l’evocato primo comma dell’art. 117 Cost.» (punto 6 del considerato in diritto.
Ma veniamo adesso alle altre due parti della decisione.
2.La giurisprudenza precedente della Corte costituzionale sui servizi pubblici locali e sul servizio idrico in particolare
Come osservato, la risposta negativa ad alcune questioni era pressoché scontata proprio perché in altre recenti occasioni la Corte aveva avuto modo di chiarire il suo punto di vista. Nel 2004 (sentenza n. 272) la Corte aveva affermato che spetta allo Stato la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, e che il fondamento costituzionale di questa disciplina era dato dalla «tutela della concorrenza», materia affidata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato dal nuovo art, 117 della Costituzione a seguito della riforma del 2001 (punto 3 del considerato in diritto). In questa decisione la Corte aveva comunque lasciato un margine di intervento alla potestà legislativa regionale per i servizi privi di rilevanza economica. Nel 2008 (sentenza n. 335), con specifico riferimento al servizio idrico integrato, la Corte ha affermato che «le quote di tariffa riferite ai servizi di fognatura e depurazione» sono «dei veri e propri corrispettivi dovuti per lo svolgimento di attività commerciali» (punto 6.1 del considerato in diritto), abbracciando dunque chiaramente una ricostruzione privatistica e commerciale del servizio idrico. Nel 2009 (sentenza n. 249), sempre con riferimento al servizio idrico, la Corte aveva respinto un ricorso della regione Calabria, che rivendicava la propria competenza legislativa in merito alla disciplina delle modalità di gestione del servizio idrico integrato ed aveva affermato la piena legittimità costituzionale dell’art. 150 del Codice dell’ambiente (d.lgs. 152 del 2006) che disciplinava le forme di affidamento di questo servizio perché, afferma la Corte, «tali regole sono dirette ad assicurare la concorrenzialità nella gestione del servizio idrico integrato, disciplinando le modalità del suo conferimento e i requisiti soggettivi del gestore, al precipuo scopo di garantire la trasparenza, l’efficienza, l’efficacia e l’economicità della gestione medesima» (punto. 14.1 del considerato in diritto). Sempre nel 2009 (sentenza n. 307), in accoglimento di un ricorso dello Stato contro una legge regionale della Lombardia in materia di servizio idrico, la Corte ha affermato l’inderogabilità della disciplina statale in materia in quanto essa spetta allo Stato sulla base di «sue competenze esclusive in una pluralità di materie: funzioni fondamentali degli enti locali, concorrenza, tutela dell’ambiente, determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni». «Deve, in altri termini – secondo la Corte – parlarsi di un concorso di competenze statali, che vengono esercitate su oggetti diversi, ma per il perseguimento di un unico obiettivo: quello della disciplina del servizio idrico integrato» (punto 4 del considerato in diritto). Occorre notare che in questa ultima sentenza la Corte doveva pronunciarsi su due diverse disposizioni della legge regionale della Lombardia, una che rendeva obbligatoria la separazione della gestione delle reti da quella del servizio e una che promuoveva la concorrenza in maniera ancora più aggressiva della disciplina statale (allora era vigente la disciplina del cd. lodo Buttiglione che prevedeva la gara, la società mista e l’in house, senza condizionare quest’ultima forma come fa attualmente l’art. 23 bis): la legge della Lombardia obbligava gli enti locali, ad eccezione del comune di Milano, ad affidare questo servizio con gara. Ebbene la Corte, con riferimento alla prima questione, ha affermato l’inderogabilità della disciplina statale, sancendo testualmente che «L’art. 49, comma 1, della legge regionale n. 26 del 2003, novellato dalla legge regionale n. 18 del 2006, ponendo il principio della separazione delle gestioni, violava specificamente la competenza statale in materia di funzioni fondamentali dei comuni, laddove, in contrasto con la disciplina statale, consentiva ed anzi imponeva una separazione non coordinata tra la gestione della rete e l’erogazione del servizio idrico integrato» (punto 5.2 del considerato in diritto). Invece, colpo di scena, con riferimento alla seconda questione, la Corte ha affermato la derogabilità della disciplina statale da parte della legge regionale proprio perché in questo specifico caso era la legge regionale a offrire una tutela maggiore della concorrenza. La Corte infatti ha affermato: «Al riguardo, deve considerarsi che la Costituzione pone il principio, insieme oggettivo e finalistico, della tutela della concorrenza, e si deve, pertanto, ritenere che le norme impugnate, in quanto più rigorose delle norme interposte statali, ed in quanto emanate nell’esercizio di una competenza residuale propria delle Regioni, quella relativa ai “servizi pubblici locali”, non possono essere ritenute in contrasto con la Costituzione» (punto 6.2 del considerato in diritto). Si tratta dunque di una giurisprudenza che da alcuni anni sposa le tesi privatrizzatrici dello Stato, fondando le proprie decisioni sulla nuova competenza che la sciagurata riforma costituzionale del 2001 ha attribuito alla potestà legislativa dello Stato, ossia «la tutela della concorrenza». La Corte, insomma, utilizza come parametro di legittimità il solo art. 117 della Costituzione, misconoscendo tuttavia il valore degli articoli della Costituzione del 1948 che si occupano specificamente dei rapporti economici, ossia gli articoli 41, 42 e 43 Cost., nei quali non solo la concorrenza non è contemplata ma in cui ampio spazio è riservato alla tutela delle finalità sociali, dell’utilità sociale e delle esigenze collettive. Dimenticando di interpretare l’art. 117 della Costituzione alla luce della prima parte della Costituzione, la Corte ha fondato le sue recenti decisioni unicamente sul titolo di competenza dello Stato «tutela della concorrenza», che è stata incredibilmente elevata a valore costituzionale.
3. Le domande nuove sottoposte alla Corte: la rilevanza economica e la lesione dell’autonomia costituzionale (art. 5 Cost.) degli enti locali
Ecco perché una parte della decisione era, purtroppo, scontata: con questi precedenti, tra l’altro così vicini nel tempo, la Corte non poteva facilmente prendere una diversa direzione.
Tuttavia, su almeno due punti essenziali ci si sarebbe potuti ragionevolmente attendere almeno una limitata apertura alle tesi regionali, proprio perché si trattava di vere e proprie novità su cui la Corte in passato non era stata sollecitata a pronunciarsi.
Il primo riguardava la nozione di rilevanza economica e, in particolare, se, una volta affermata la competenza dello Stato in materia di forme di gestione dei servizi pubblici locali (in conformità con la giurisprudenza pregressa), potessero essere le regioni o gli enti locali a stabilire “in concreto” quali fossero le condizioni in virtù delle quali tale rilevanza doveva essere attribuita ad una data attività. Sul punto la Corte ha «escluso che gli enti infrastatuali possano soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza della rilevanza economica del servizio» (punto 11.4 del considerato in diritto), in quanto l’attribuzione della competenza ad apprezzare se in concreto sussistano le condizioni per attribuire la rilevanza economica avrebbe finito con lo svuotare la competenza statale in materia di concorrenza. La corte afferma chiaramente di desumere il concetto di rilevanza economica dall’ordinamento comunitario. Si rifà infatti espressamente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia CE che ha spesso adottato una nozione oggettiva di attività economica[1]. In questo modo, tuttavia, la Corte costituzionale cade, in primo luogo, in una evidente contraddizione perché prima afferma che in questa materia non ci sono vincoli europei da rispettare, poi però incomprensibilmente attinge la nozione di attività economica proprio dal’ordinamento comunitario. In secondo luogo effettua una inaccettabile semplificazione dell’ordinamento comunitario, perché la giurisprudenza della Corte di Giustizia CE non è monolitica e perché inoltre l’ordinamento comunitario non ha una nozione univoca di attività economica: ad esempio per il libro verde sui servizi di interesse economico generale la nozione di attività economica è soggettiva, dipende quindi dalla valutazione soggettiva dell’ente pubblico. La Corte costituzionale, dunque, una volta affermato che ci troviamo in un ambito non coperto da vincoli europei, avrebbe dovuto dedurne che la nozione di attività economica deve essere ricercata in primo luogo nella Costituzione repubblicana del 1948 e in particolare in quegli articoli da 41 a 43 che sanciscono chiaramente la prevalenza dell’utilità sociale e dei fini sociali sulla libertà di iniziativa economica privata.
Occorre anche incidentalmente osservare che la nozione di rilevanza economica è una nozione recentemente introdotta dal legislatore, proprio nel momento in cui si è posto l’obiettivo di privatizzare i servizi pubblici locali. La prima legge che ha introdotto questo concetto è la legge n. 326 del 2003, il cd. lodo Buttiglione. Prima, nel 1990, il legislatore, con la legge n. 142, aveva introdotto il concetto di rilevanza «imprenditoriale»[2]. Occorre chiedersi per quale motivo nel 2003 il legislatore avverte l’esigenza di introdurre il diverso concetto di rilevanza economica. È il cattivo legislatore che introduce questo concetto, proprio nel momento in cui la politica decide di abdicare dal suo ruolo di decidere cosa dovesse essere ricompreso nel mercato e cosa ne fosse escluso. È il cattivo legislatore che ha inteso pilatescamente far credere che ci sia qualcosa che è oggettivamente economico e qualcosa che non lo è oggettivamente. Ed è in questo tranello che è caduta la Corte costituzionale, pur avendo il potere di far emergere questo errore del legislatore. Quello della rilevanza economica, infatti, è un falso concetto: sicuramente non è un concetto giuridico, ma una categoria sociologico-economica, appunto perché esso non ha alcun valore definitorio ma è indeterminato, scivoloso, indefinibile (la rilevanza imprenditoriale, invece poteva avere una qualche utilità definitoria, perché giuridicamente è data una definizione di impresa; tra l’altro la nozione di impresa è collegata a quella di servizi pubblici dallo stesso art. 43 della Costituzione che espressamente riguarda le «imprese» che si riferiscono a servizi pubblici essenziali). In astratto, infatti, tutto può avere rilevanza economica: anche la giustizia potrebbe essere considerata un’attività economica (ipoteticamente offerta da arbitri privati), così come la difesa, che potrebbe in astratto essere soddisfatta da eserciti privati (è solo con gli stati nazionali che si crea l’esercito di cittadini, sul modello dell’esercito rivoluzionario francese, ma nei periodi precedenti essa era svolta da mercenari, appunto, appaltati dallo Stato). Dunque non esiste la rilevanza economica in rerum natura. La rilevanza economica è stata pertanto il pretesto ideologico che è servito per giustificare il processo di privatizzazione. Da un lato essa aveva la funzione di allargare a dismisura le attività che devono essere poste sul mercato, dall’altro ha confuso l’attenzione per far credere ai cittadini che la scelta di privatizzare non è una scelta politica, ma deriva dalla natura delle cose, dalla rilevanza economica, appunto. Dobbiamo invece riaffermare il valore della politica e il predominio di questa sull’economia. È la politica che, se vuole interpretare compiutamente il suo ruolo, deve stabilire quali attività sono affidate al mercato e quali sono sottratte al mercato perché necessarie per l’attuazione del bene comune. E la politica deve assumersi la responsabilità di queste scelte, non farle derivare da un preteso vincolo derivante da una supposta natura economica dell’attività. La rilevanza economica ha rappresentato, in sintesi, il cavallo di Troia delle privatizzazioni.
Il secondo e, a mio parere, cruciale aspetto, su cui la Corte non si era fino ad oggi pronunciata, è rappresentato dalla lesione che una disciplina siffatta (art, 23 bis) arreca alla autonomia degli enti locali (art. 5 Cost.), i quali sono in tal modo privati della possibilità di scegliere fra una pluralità di forme di gestione, fra cui anche gestioni genuinamente dirette, come ad esempio quella attraverso azienda pubblica o in economia. Questo è il passaggio più criticabile della sentenza della sentenza perché la Corte, in realtà, decide di non decidere avvalendosi di un mero espediente procedurale. In altri termini, la Corte afferma che poiché le gestioni dirette sono state cancellate dall’ordinamento nel 2001 con la l. 448 (art. 35), questa censura è stata sollevata con grande ritardo dalle regioni. La Corte, tuttavia, non ha tenuto conto di due fattori decisivi, a dimostrazione della pretestuosità di un simile argomento. Se fosse entrata nel merito, la Corte avrebbe necessariamente dovuto dare ragione ai ricorsi regionali. In primo luogo, se è vero che la legge n. 448 del 2001 aveva soppresso tutte le forme di gestione diretta, è pur vero che la successiva normativa del 2003, ha introdotto l’in house con pari dignità rispetto alla gara. Quindi, assodato che l’in house altro non è che un succedaneo della gestione diretta tramite azienda, come afferma la stessa Corte costituzionale in questa sentenza, dopo il 2003 tale obiezione non avrebbe potuto essere sollevata dalle regioni. È dunque solo con l’art. 23 bis che il diritto degli enti locali di scegliere tra una gestione privata ed una gestione pubblica (per quanto nella criticabile forma di spa pubblica) viene fortemente limitato, per non dire azzerato (in quanto l’in house diventa un’eccezione sottoposta a una pluralità di condizioni). La lesione del principio autonomistico determinata dalla soppressione delle genuine forme di gestione pubblica non poteva che essere sollevata dalle Regioni solo dopo l’approvazione dell’art. 23 bis, visto che medio-tempore, dal 2003 al 2008 esisteva un surrogato (un succedaneo) della gestione diretta nella forma dell’in house, dotato di pari dignità rispetto all’affidamento con gara. Ciò che emerge dunque chiaramente è che con questa sentenza la Corte costituzionale non ha affermato la piena legittimità costituzionale dell’art. 23 bis, ma si è limitata a sancire che spetta solo allo stato la disciplina in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica. Essa infatti si è pretestuosamente rifiutata di entrare nel merito dei limiti costituzionali che incontra la stessa legge dello Stato proprio con riferimento all’obiezione giuridicamente più pregnante, ossia quella della lesione del principio autonomistico. Non è dunque esatto sostenere che questa sentenza della Corte costituzionale affermi la piena compatibilità con la costituzione dell’art. 23 bis. Al contrario, sulla questione di maggior peso, e direi forse proprio perché ineludibile nel merito, pur di non decidere la Consulta è ricorsa ad un chiaro escamotage procedurale. Vi sono pertanto ancora legittimi e motivati dubbi circa la legittimità costituzionale di una disciplina stratale pro-concorrenziale, come quella introdotta dal 23 bis, che arriva sino ad annullare il potere di scelta dell’ente locale. Cosa altro è l’autonomia locale, su cui si assiste ad una insopportabile retorica, se essa non ricomprende proprio il potere di decidere quelle che sono le forme di gestione dei servizi pubblici locali più rispondenti ai bisogni della comunità amministrata? Basta leggere l’art. 112 del dlgs 267 del 2000, che chiarisce cosa debba intendersi per servizio pubblico locale, per rendersi conto di quanto essenziali siano tali attività. Curare gli interessi dei cittadini, infatti, significa innanzitutto stabilire quali siano i bisogni di interesse collettivo che devono essere garantiti per realizzare lo sviluppo sociale, economico e civile, ed avere anche la possibilità di soddisfare direttamente questi bisogni, alle condizioni stabilite dall’ente pubblico, che spesso non coincidono affatto con quelle che sarebbero prodotte da un’impresa privata che agisce sul mercato (libero o regolato)[3].
4. Quali strategie per la difesa dei beni comuni dopo il 23 bis e la sentenza della Corte costituzionale 325 del 2010
Adesso resta il problema di comprendere quali siano le strategie da utilizzare per garantire il risultato della gestione pubblica dell’acqua ed evitare che l’Italia diventi a breve territorio di conquista da parte delle grandi multinazionali francesi e dei colossi, oramai quasi del tutto privati, nati dalle ex – municipalizzate come A2A, Hera, Acea, Iren, ecc.
Le strategie per contrastare la privatizzazione sono pertanto di due tipi, una politica e una giuridica.
Dal punto di vista giuridico, e in particolare sul piano amministrativo, purtroppo, la situazione è desolante. La legge dello Stato che disciplina i servizi pubblici locali è l’art. 23 bis che ha superato indenne il vaglio di legittimità costituzionale (anche se la questione di maggior peso resta aperta). La Corte, in questa stessa sentenza, ha anche espressamente annullato l’art. 1 della l. n. 2 del 2010 della Regione Campania che si limitava semplicemente a dichiarare il servizio idrico «privo di rilevanza economica». L’unico strumento che offre il diritto positivo vigente sul piano amministrativo è dunque confinato al ricorso all’in house, che la stessa legge guarda con estremo sfavore, sottoponedolo a penetranti limiti e condizioni. Questo istituto è stato giustamente da più parti criticato per due differenti motivi. Innanzitutto perché non rappresenta una vera forma di gestione diretta dei servizi pubblici, in quanto l’affidamento ad una società in house si risolve sempre e comunque in una esternalizzazione del servizio e inoltre perché è culturalmente subalterno alla logica privatistica che ha sfigurato il diritto pubblico in questi ultimi anni: gli istituti di diritto pubblico sono stati progressivamente mortificati perché la logica aziendalistica ha invaso tutti gli spazi possibili. Tuttavia, la polemica sull’istituto dell’in house, che pure si fonda su valide ragioni, rischia non solo di essere sterile (perché non esistono alternative giuridicamente percorribili), ma è anche destinata a scomparire tra pochissimo. Infatti, dopo la scadenza delle “vecchie” concessioni prevista per legge, se gli enti locali non saranno riusciti a realizzare validi affidamenti a “organismi di diritto pubblico” (così sono definite dal diritto interno e da quello comunitario le società interamente pubbliche), saranno obbligati a mettere a gara il servizio e questo strumento (e tutta la relativa polemica) potranno tornare di attualità solo dopo la scadenza delle nuove concessione ai privati, dunque tra 20 o 30 anni. Inoltre, continuare a sostenere che a diritto positivo vigente gli enti locali possano realizzare aziende speciali, attraverso modifiche degli statuti comunali, rischia solo di creare ulteriore confusione e favorire invece che bloccare il processo di svendita dei beni comuni.
A questo punto, stando alla più recente posizione post-sentenza formulata dai giuristi che avevano sostenuto il percorso bocciato dalla Corte costituzionale (che finalmente introducono un ragionamento giuridico, non limitandosi ad affermare, bonariamente, come in passato «ripubblicizzare si può, basta averne la volontà politica!», e che ammettono, dunque, che la strada giuridica per la gestione pubblica è una strada stretta da ricercare all’interno di deroghe ed eccezioni) i comuni dovrebbero inserire nei propri statuti la clausola che il servizio idrico è di interesse generale. Non più, dunque, privo di rilevanza economica (quindi si ricomincia, tutto da rifare il lavoro svolto finora che, comunque sia, non ha ancora portato a nessuna istituzione di azienda speciale nei comuni ove la modifica statutaria è avvenuta). Inoltre, si propone di inserire questa clausola negli statuti comunali sperando che la Corte costituzionale ritorni sui suoi passi. Insomma un vero e proprio arzigogolo da (raffinati) giuristi.
Francamente mi pare irresponsabile, a questo punto, di fronte ad un attacco ai beni comuni di dimensioni così devastanti e ad un quadro tanto pericoloso, continuare a sostenere che a diritto positivo vigente, dopo l’art. 23 bis e dopo questa decisione della Corte costituzionale, si possa ancora sperare di realizzare in via amministrativa un affidamento della gestione del servizio idrico a un’azienda speciale. L’acqua non si salva con i sofismi giuridici, ma evitando che sia svenduta ai privati. E la svendita, purtroppo, è dietro l’angolo.
Così facendo si rischia solo di frapporre ulteriori ostacoli a quelle “poche” amministrazioni locali che fossero seriamente intenzionate a sottrarre, per il momento, il servizio idrico al mercato, nell’attesa che il quadro legislativo si modifichi, anche a seguito dei referendum, e si reintroducano genuine forme pubblicistiche di gestione[4]. A diritto positivo vigente, ai sensi di questa nefasta legislazione, solo così, e peraltro ancora per poco tempo (ossia il 31 dicembre 2010 in alcuni casi, e 31 dicembre 2011 nella maggior parte dei casi) si può cercare di raggiungere un risultato “minimo”, ossia evitare che le imprese private entrino nel mercato dell’acqua, in attesa che i referendum, che ci auguriamo vincenti, ridisegnino il quadro legislativo. Solo così si può tentare di mettere al sicuro l’acqua per un congruo numero di anni, anche 20 o 30, e dunque conservare la gestione in mano pubblica della risorsa idrica, lavorando nel frattempo affinché il vento mercatista cessi e perché la politica riesca ad accogliere le istanze di tutela dei beni comuni che con sempre maggior forza si levano nel paese, ripristinando le forme di gestione diretta genuinamente pubblicistiche.
Passiamo ora al piano politico. Per battere sul piano culturale l’ideologia del mercato ancora dominante, occorre da un lato riaffermare la supremazia della politica sull’economia e delle gestioni veramente pubbliche su tutte le forme di gestione privatistica, siano esse realizzate in forma di società pubblica, sia in forma aziendalistica. La sconfitta politica e culturale affonda infatti le sue radici nella trasformazione dell’azienda giolittiana in un’azienda dotata di «personalità giuridica» e di «autonomia imprenditoriale», ossia in un ente pubblico “economico”, (aggettivo certamente significativo), avvenuta nel 1990 e che ha permesso alle vecchie aziende pubbliche di comportarsi come degli imprenditori privati. Da allora il governo dei servizi pubblici locali si è allontanato dal perseguimento del bene comune per essere soffocato dalla cultura aziendalistica. Non dimentichiamo che il processo di trasformazione delle aziende speciali in s.p.a. è iniziato nel 1997, a seguito dell’approvazione della prima legge Bassanini, che rimetteva alla libera decisione degli enti locali questa trasformazione, divenuta poi obbligatoria solo a fine 2001, con la legge 448, art. 35. Trasformazione che è stata chiesta con forza ai consigli comunali proprio dai consigli di amministrazione delle aziende speciali, che erano nel frattempo diventate delle imprese aggressive per effetto della modifica del 1990, appunto per potersi finalmente liberare degli ultimi (tenui) vincoli pubblicistici cui erano sottoposte.
Dunque, nell’immediato, l’impegno deve concretizzarsi nella richiesta di una legge di moratoria che sospenda l’applicazione della normativa transitoria del Ronchi e nel sostegno ai referendum per abrogare la normativa privatizzatrice. Ma ciò che serve sopra ogni cosa è una grande battaglia culturale e politica che abbia come obiettivo la richiesta di una legge che ridia dignità agli enti locali, mettendoli nuovamente in grado di scegliere tra più alternative di gestione, tra cui anche quelle veramente pubblicistiche, come la gestione in economia o quella dell’azienda di giolittiana memoria, ossia degli strumenti che siano strutturalmente idonei a garantire il bene comune prima dell’economicità della gestione, studiando le forme necessarie e autenticamente democratiche di partecipazione dei cittadini e dei lavoratori alla gestione del servizio.