Il contratto a termine è di nuovo al centro della scena. Infatti, anche la prima fase del Jobs Act del nuovo Governo (il decreto legge n. 34 del 2014) punta su questo tipo contrattuale, quasi che, attraverso la sua continua revisione, si possano risolvere tutti i problemi occupazionali. A ben vedere – al di là delle molteplici e argomentate perplessità sugli impatti occupazionali del lavoro flessibile[1], e quindi pure dei contratti a termine – c’è un piano del discorso di grande attualità sul quale è bene concentrare l’attenzione: la sostanziale identità funzionale tra “termine” e “licenziamento”, dalla quale occorre partire per avere piena consapevolezza dell’importanza delle questioni in gioco.
Fermo restando la differenza formale e strutturale, “termine” e “licenziamento” appaiono, nei fatti, strumenti di adeguamento delle dimensioni dell’organico alle mutevoli esigenze organizzativo-produttive. Entrambi assumono maggiore rilievo nelle fasi in cui le imprese devono affrontare congiunture economiche difficili e mercati particolarmente mutevoli. Al contempo non può dimenticarsi che il potere libero (cioè privo di limitazioni) del datore di estinguere il rapporto di lavoro, attraverso vuoi il licenziamento vuoi la (precedente) apposizione del termine, rende vana ogni altra tutela per il lavoratore, intaccandone – si badi – la libertà e la dignità: da questo punto di vista, la stabilità del rapporto di lavoro costituisce l’architrave del sistema giuridico di protezione del lavoro subordinato.
Nell’evoluzione ordinamentale, se la disciplina del licenziamento, a partire dagli anni ‘60/’70 (soprattutto con la famosa tutela reale: l’articolo 18, per intenderci), si è fatta sempre più vincolante per le imprese, l’apposizione del termine al contratto di lavoro, a mo’ di compensazione, ha via via visto maggiori aperture. Tuttavia, nella disciplina del contratto a termine si è sempre mantenuto un punto ben fermo: la necessità di una “causale”, ovvero di una motivazione, che giustificasse e legittimasse l’apposizione del termine al contratto[2]. E’ con il Governo Monti, precisamente con la cd. Riforma Fornero, che il quadro muta. In questa versione, il contratto a termine a-causale è corredato da due limiti: la previsione di un primo ed esclusivo rapporto di durata non superiore a dodici mesi e il divieto di proroga. Dopo la parentesi del Governo Letta – per quanto qui interessa, priva di interesse -, il Governo Renzi pare proprio intenzionato a proseguire con decisione sulla strada della a-causalità, aumentando sensibilmente le perplessità già generate dalla Riforma Fornero.
Il decreto 34 consente alle imprese, nell’arco temporale di 36 mesi, di assumere a termine senza alcuna motivazione; e il contratto, nei limiti dello stesso arco temporale, potrà essere prorogato non per una sola volta, bensì per ben 8 volte (e a poco servirebbe ridurre la durata complessiva del contratto o il numero di proroghe consentite, come pare si voglia fare nel rimettere mano al decreto in sede di conversione). Unico vincolo è il rispetto della clausola di contingentamento, fissata nel 20% dell’organico aziendale. Insomma, nell’ambito di tale percentuale – non semplice da calcolare, quasi il doppio di quella già indicata dai contratti collettivi[3] e dalla quale restano comunque fuori una serie di ipotesi e di lavoratori, si pensi ad esempio agli ultra 55enni -, il datore di lavoro potrà scegliere indifferentemente se stipulare contratti a termine o a tempo indeterminato, con buona pace dell’interesse dei lavoratori alla stabilità del rapporto (almeno di quelli che rientrano in quella percentuale!). In un sol colpo, si torna indietro di decenni!
Dinanzi a tale scenario, mi limiterò a proporre due considerazioni.
La prima, di carattere per così dire giuridico-fattuale, discende dal forte squilibrio contrattuale determinato dalle novità descritte. La nuova normativa consente al datore di lavoro di assumere un lavoratore con contratti di durata molto breve e prorogabili ad intervalli più o meno regolari (si pensi al caso di un lavoratore assunto con un contratto di 5 mesi a cui, nel rispetto del limite di 36 mesi e delle 8 proroghe, quel contratto potrebbe essere prorogato circa ogni 4 mesi). Bene, v’è da pensare che, anche qualora il lavoratore ritenesse di subire ingiustamente trattamenti inferiori rispetto ai colleghi assunti a tempo indeterminato, molto difficilmente si attiverebbe per rivendicare i propri diritti. In barba al rispetto del principio di non discriminazione, che – giova ricordarlo – è ampiamente ribadito proprio nella normativa sul lavoro a termine tanto dal nostro ordinamento quanto da quello dell’Unione europea.
La seconda considerazione è di tipo giuridico-sistematico. Se già le ultime riforme sul contratto a-causale potevano sollevare dubbi di legittimità costituzionale, proprio per la stretta correlazione funzionale tra licenziamento e termine di cui dapprima di diceva, oggi quei dubbi si traducono in certezze[4]. Cerco di spiegarmi meglio. Grazie alla preziosa opera della Consulta, è possibile rinvenire l’esistenza di un principio costituzionale contro i licenziamenti individuali arbitrari che li rende legittimi solo se basati su una valida motivazione, principio oggi esplicitamente espresso anche nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE (art. 30). Tutto ciò, a mio avviso, comporta necessariamente l’individuazione di un corrispondente principio anche per quanto concerne l’apposizione del termine al contratto di lavoro. Se così non fosse, la portata del divieto del licenziamento arbitrario risulterebbe svuotato. Più esplicitamente, si può dire che la stipulazione dei contratti a termine non dovrebbe mai essere libera: altrimenti sarebbe sufficiente per il datore di lavoro “scegliere” di stipulare tanti contratti a tempo determinato – verosimilmente a breve scadenza, ipotesi verso cui, oggi, il Jobs Act sembra proprio spingere – per aggirare, con l’automatica cessazione del rapporto allo spirare del termine, il rispetto del principio che impone una giustificazione al licenziamento. A nulla gioverebbe chiamare in ballo le pure nette differenze giuridiche tra il licenziamento e il termine: l’osservazione, condivisibile sul piano strettamente tecnico-formale, peccherebbe di astrazione, finendo per perdere di vista il peso che, in concreto, tanto l’uno quanto l’altro assumono nel complessivo equilibrio delle posizioni delle parti contrattuali.
Sicché, per l’apposizione del termine al contratto devono essere previste regole coerenti con quelle dettate per i licenziamenti al fine anzitutto di non rendere ineffettive queste ultime. Ed allora, se per i licenziamenti la regola è quella della giustificatezza (oggettiva o soggettiva) – eloquentemente non toccata dalla riforma Fornero -, la medesima regola deve presiedere anche alla disciplina del contratto a termine. In questo caso la giustificazione necessariamente precede (e non segue) la stipulazione del contratto, legittimandone poi l’estinzione. Una giustificazione che, quindi, non potendo, per ovvi motivi, riguardare comportamenti del lavoratore, deve essere ricondotta a un’esigenza organizzativa inevitabilmente diversa da quella per la quale si stipula un contratto a tempo indeterminato.
In conclusione, nel nostro ordinamento giuridico la tutela del lavoratore alla stabilità del rapporto di lavoro non può che tradursi anche nel limite alla stipulazione di un contratto a termine attraverso una causale organizzativa. Il legislatore è tenuto ad osservare questa regola. Ha, per converso, il potere di decidere come congegnarla: tramite ipotesi tassative da lui stesso individuate; mediante il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali; attraverso una norma generale. Tutte tecniche ampiamente utilizzate nel tempo. Altro non pare consentito. In caso contrario ad essere drasticamente ridotto, più che il livello dei tassi di disoccupazione (tutto da dimostrare), sarà (questa è una certezza) il livello di tutele e la dignità dei lavoratori.
*Docente di diritto del lavoro nell’Università del Sannio