L’organetto di Draghi. Terza lezione: LTRO, Target 2, OMT (2011-2012)

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Political and social notes

Sappiamo che nel periodo 2008-2011 la BCE ha espanso il proprio bilancio allo scopo di tenere sotto controllo i tassi di interesse a breve termine (si rimanda a riguardo alla seconda lezione)[1]. Nel 2010-11 essa ha anche acquistato titoli sovrani dei paesi periferici dell’Eurozona ufficialmente per assicurare la trasmissione della politica monetaria. Abbiamo anche imparato che l’eccesso di liquidità rimane depositato presso l’Eurosistema in particolare nella deposit facility. In questa lezione vedremo come il contagio della crisi a Spagna e Italia abbia costretto nel 2012 la BCE a ulteriori e più eclatanti misure che hanno ulteriormente espanso il suo bilancio. Cominceremo con l’occuparci di uno strano meccanismo monetario chiamato Target 2 che occupò la scena nel 2011 e 2012.

1) 2011: Lo strano caso di Target 2

Nel 2011 Werner Sinn (2011), il più influente economista tedesco, sollevò un polverone mediatico e accademico sostenendo che la BCE stava effettuando un salvataggio silenzioso (stealth bail out) dei paesi periferici attraverso un arcano meccanismo chiamato Target 2. All’inizio capire Target 2 fu un rompicapo per molti economisti, ora le cose sono più chiare (Febrero & Uxò 2013; Cesaratto 2013). Target 2 (l’acronimo di  Trans-European Automated Real-time Gross Settlement Express Transfer System), è una piattaforma che governa i pagamenti interbancari: quando noi effettuiamo un bonifico all’estero, per esempio acquistiamo una bottiglia di champagne del valore di 100€, la nostra banca veicola questo pagamento alla banca del fornitore francese attraverso Target 2.

Per capire il ruolo di Target 2 nella crisi, ricordiamoci un leitmotiv di queste lezioni: i trasferimenti di fondi fra le banche commerciali che originano da ordini dei clienti, come i bonifici per esempio, danno luogo a un trasferimento di fondi dal conto di riserva e regolamento di una banca a quello di un’altra banca. Per come è stata organizzata l’Eurozona, ciascuna banca detiene il proprio conto di riserva e regolamento presso la propria banca centrale nazionale (BCN), ma questa (apparentemente) è solo una formalità, una reminiscenza del sistema di valute nazionali. Accade così che quando una banca esegue un ordine di pagamento verso un’altra banca, nell’esempio trasferisce i nostri quattrini dal nostro conto corrente presso Unicredit a quello di Paribas presso cui la ditta francese di vini ha il proprio conto, la nostra banca perde un ammontare equivalente di riserve dal suo conto presso la Banca d’Italia, riserve che la banca francese si vede accreditare nel suo conto presso la Banque de France – accredito sulla base del quale Paribas accrediterà a sua volta 100€ sul conto corrente della ditta di vini. Nella transazione, la Banca d’Italia, che ha cancellato 100€ dalle riserve di Unicredit, ha chiesto alla Banque de France di accreditare 100€ nelle riserve di Paribas. Tutto questo avviene automaticamente attraverso Target 2. Ma Banque de France cosa ottiene in cambio dalla Banca d’Italia? Ottiene una scrittura contabile in cui c’è scritto che la Banque de France ha un attivo (un claim) di 100€ verso Target 2; per contro la Banca d’Italia ha un passivo di 100€ verso Target 2. Innocenti scritture contabili? Fino a un certo punto. A questo stadio è vero che noi abbiamo perso 100€ dal nostro conto corrente, e Unicredit ha visto ridotte le proprie riserve di altrettanto. Tuttavia la Banca d’Italia non ha versato un bel nulla alla Banque de France. Poco male. Banca d’Italia e Banque de France sono succursali di un’unica ditta, la BCE, per cui se è giusto lasciare traccia dei trasferimenti di liquidità fra le due succursali, a tali scritture contabili non va data troppa importanza, siamo in famiglia. O no? Fatto sta che i membri dell’UME hanno voluto mantenere le loro banche nazionali – alla faccia dell’irreversibilità dell’euro. Se esse fossero state abolite, queste scritture contabili non sarebbero neppure occorse.[2] Invece, in uno spirito del tipo, fratelli sì, ma fino a un certo punto, le banche centrali nazionali esistono e con esse le scritture Target 2 a memoria che, come nell’operazione sopra descritta, l’Italia deve qualcosa alla Francia.

box 1

Dalla lezione 1 abbiamo anche imparato è che se una banca perde riserve (Unicredit nell’esempio), le deve recuperare, o attraverso un prestito interbancario o ricorrendo a un prestito della banca centrale. Normalmente, e simmetricamente, vi sarà una banca beneficiaria di un pagamento che ha acquisito riserve (Paribas nell’esempio), la quale volentieri presterà l’eccesso di riserve.[3] In questo caso Paribas invierà 99€ a Unicredit attraverso Target 2; la Banca d’Italia ricambierà il favore alla Banque de France accreditando 99€ sul conto di riserva di Unicredit. Questo favore comporta che il claim Target 2 della Banque de France si riduce a 1€, e corrispondentemente anche la passività Target 2 della Banca d’Italia si riduce a 1 €. Come si vede, il prestito di Paribas a Unicredit cancella (in grande misura) le strane scritture contabili “attivi/passivi Target 2” volte a rammentarci che l’Italia doveva qualcosa alla Francia in cambio della bottiglia di champagne, ma in pratica non aveva versato nulla. In luogo di quelle scritture contabili c’è ora un prestito di Paribas a Unicredit. In altre parole, ora la passività commerciale italiana ha la forma più tangibile di un prestito privato che Paribas ha fatto a Unicredit.[4]

In maniera analoga all’esempio, durante gli anni dell’euro pre-crisi, le crescenti importazioni dei paesi europei periferici che davano luogo a passività Target 2, erano compensati da flussi di capitale dai paesi core. I saldi target 2 erano così approssimativamente zero. Ciò che non era zero, anzi cresceva nel tempo, erano i prestiti delle banche core alle banche periferiche, riflesso del peggioramento dei conti esteri dei paesi periferici (tecnicamente un peggioramento delle partite correnti).

Fatto sta che, come ci siamo già detti, dal 2008 con la crisi si rompe il mercato interbancario e di nuovi prestiti non se ne accordano più, ché anzi, quelli in scadenza non vengono rinnovati (no roll over). La questione non riguarda solo i prestiti interbancari, ma anche gli acquisiti di titoli del debito sovrano dei paesi periferici, cosa che fa esplodere i famosi spread.

A quel punto, mentre la fuga di depositi (sudden stop)  dava luogo a saldi Target 2 negativi, il rifinanziamento delle aziende di credito periferiche che perdevano depositi (e dunque riserve) è avvenuto attraverso le operazioni di rifinanziamento dell’Eurosistema.[5] Tali uscite di capitali hanno dapprima coinvolto soprattutto i tre piccoli periferici, ma dal 2011 anche i due grandi periferici. Il rifinanziamento, senza il quale i paesi periferici non avrebbero potuto accomodare il trasferimento dei depositi dai propri sportelli a quelli delle banche dei paesi core, fu per questo rafforzato attraverso due operazioni a lungo termine con prestiti a tre anni (3 years-LTRO, Very Longer Term Refinancing Operations VLTRO). Sicché le banche che perdevano liquidità per l’uscita di capitali potevano riapprovvigionarsi presso gli sportelli della banca centrale.[6] Quello che accade dunque, e in maniera progressivamente più massiccia, dal 2008 al 2012 è una perdita di depositi e di riserve da parte delle banche dei paesi periferici, perdita sistematicamente accomodata dal rifinanziamento di nuove riserve da parte dell’Eurosistema.

La figura 1 mostra l’evoluzione dei saldi Target 2 attivi e passivi. Si può osservare come i paesi “core” detengano in media saldi attivi, mentre i paesi periferici registrano saldi passivi. Si osserva inoltre un primo e più modesto picco attorno al 2008-9 mentre le cose appaiono brevemente migliorare al principio del 2010, quando la crisi sembrava superata e i prestiti interbancari sulla via della ripresa. Nel corso del 2010 e 2011, e poi in maniera brusca nella prima metà del 2012, i saldi si riallargano in maniera drammatica per ricominciare a rientrare dalla seconda metà del 2012. L’evento spartiacque sono le famose dichiarazioni di Draghi del 28 luglio 2012.

fig.1

Figura 1 – Fonte: Cour-Thimann (2013)

 fig. 2

Figura 2 – Fonte: Banca d’Italia, Bollettino n. 1 del 2015

La figura 2 mostra l’evoluzione del saldo Target 2 per l’Italia e dei suoi determinanti fondamentali.[7] Si vede come dal luglio 2011 a metà 2012 gli investimenti esteri in titoli pubblici italiani siano diminuiti di circa 150 miliardi (per darci un ordine di grandezza lo stock di titoli di Stato detenuti da non residenti scende da 700 a 600 miliardi di euro su uno stock di debito pubblico di circa due mila miliardi), mentre un andamento grosso modo analogo ha anche la raccolta estera delle banche. In sostanza il flusso cumulato negativo dei capitali esteri prestati a Stato e banche ben spiega l’andamento di Target 2. Da settembre 2012 i flussi verso i titoli pubblici ritornano positivi, mentre continua il deflusso dei prestiti esteri alle banche italiane. Nonostante quest’ultimo dato, la ripresa dei prestiti esteri allo Stato e un afflusso di capitali esteri verso i titoli privati ha determinato un miglioramento del saldo (negativo) Target 2.

Quindi a spiegare l’andamento del saldo Target 2 contribuisce sia il deflusso dei prestiti a banche e Stato (fig. 6) che il coevo rifinanziamento delle banche (a sua volta utilizzato in buona misura per rifinanziare lo Stato), come evidenziato dal lato sinistro della figura 3 che mostra come la creazione di liquidità da parte dell’Eurosistema abbia un andamento simile a quello delle passività Target 2. Simmetricamente il lato destro della figura mostra come quella liquidità abbia consentito il rimpatrio di capitali finendo depositata nei conti correnti presso l’Eurosistema detenuti dalla banche dei paesi core.

fig. 3

Figura 3 – Fonte: http://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/mobu/mb201305en.pdf

 

2) 2011-2012: la controversia su Target 2

Riflettiamo ora sulla differenza con quanto sarebbe accaduto con monete nazionali. Tipicamente, un paese emergente con un debito estero netto (tecnicamente con una posizione netta sull’estero negativa) denominato in una moneta straniera, di norma in dollari, frutto di passati disavanzi delle partite correnti,[8] a fronte del rifiuto degli investitori stranieri di continuare a finanziare nuovi disavanzi e rinnovare il debito preesistente, e impossibilitato a restituire il debito dati i limiti delle riserve ufficiali, avrebbe dovuto dichiarare default, vale a dire l’impossibilità di restituire il debito in scadenza e pagare gli interessi. Normalmente a ciò sarebbe seguito l’intervento del FMI che, attraverso prestiti, avrebbe reso possibili quei pagamenti – mettendo al sicuro le banche straniere creditrici. Il FMI avrebbe inoltre avviato un processo di ristrutturazione del debito, in sostanza di allungamento delle scadenze, condizionando il tutto a politiche di restrizione fiscale da parte del paese volte a realizzare un avanzo di partite correnti sì da ottenere un introito netto di dollari con cui servire il debito ristrutturato. Una svalutazione della divisa nazionale avrebbe tuttavia ammorbidito la durezza delle politiche imposte.

Rispetto alle classiche crisi di bilancia dei pagamenti come ne abbiamo conosciute decine nei paesi emergenti, il combinato disposto di Target 2 (che permette un ordinato rimpatrio dei prestiti internazionali) e delle operazioni di rifinanziamento (che non fanno mancare alle banche periferiche la liquidità con cui soddisfare quel rientro e rispettare la riserva obbligatoria) muta radicalmente il quadro in una maniera che assomiglia molto alla famosa proposta Keynesiana di una Currency Clearing Union, in cui la Clearing Union ricicla il surplus di liquidità  dei paesi in avanzo di partite correnti a favore di quelli in disavanzo (Cesaratto 2013, 2014; Lavoie 2014).[9] Con una differenza però. Nella proposta di Keynes i paesi in disavanzo commerciale dovevano sì cercare di ripristinare l’equilibrio – sebbene il riciclo della liquidità avrebbe fatto guadagnare tempo e impedito drastiche restrizioni della domanda interna con repentini aumenti della disoccupazione – ma sarebbero stati agevolati in questo da politiche espansive dei paesi in avanzo e da un eventuale riallineamento dei cambi. In Europa sembra che solo la prima misura, la restrizione, sia stata intrapresa – l’ultima è impossibile per definizione, un’espansione tedesca impedita dal modello mercantilista tedesco (Cesaratto e Stirati 2011).[10]

Su Target 2 si sono sviluppate due posizioni (si veda Cesaratto 2013 per una rassegna). La prima, propugnata da Sinn (2011), è che il combinato disposto di Target 2 e delle operazioni di rifinanziamento costituisca un salvataggio silenzioso dei paesi periferici che possono così evitare di riaggiustare gli equilibri esterni. La seconda posizione è che tutto questo si svolge all’interno di regole preesistenti volte ad assicurare il buon funzionamento dell’unione monetaria, ovvero la possibilità di trasferire liberamente depositi fra un paese e l’altro, e il riapprovvigionamento da parte della banca centrale di riserve alle banche che ne fossero a corto.

Un’ottima economista della BCE, Philippine Cour-Thimann (2013) ha in un certo senso dato ragione ad entrambe le posizioni. Citiamo alcuni passaggi di un suo saggio commentando in corsivo alcuni passaggi:

“With the financial and sovereign debt crisis, private foreign investors were no longer willing to roll over the financing of the cumulated current account deficits. Foreign and domestic residents also tended to withdraw their investments and deposits from those countries. The monetary authority, as a consequence of the ECB’s decisions to accommodate the liquidity needs of solvent banks in dysfunctional markets, took on a major intermediation function. The emergence of Target balances within the euro area countries’ balances of payments can be interpreted as the monetary authority having largely substituted for private money flows in the financing of the cumulated current account deficits of certain countries or beyond, when financial inflows reversed direction as in the case of Ireland” (ibid: 23).

La Thimann afferma in sostanza che con il crollo dei crediti infra-eurozona è l’Eurosistema a intermediare i prestiti: I capitali ritirati via Target 2 sono depositati presso le banche centrali nazionali dei paesi core, dunque presso  succursali dell’Eurosistema; e il medesimo Eurosistema li ripresta alle banche commerciali dei paesi periferici attraverso la concessione di liquidità da parte delle banche centrali nazionali dei paesi periferici (si veda al riguardo una precisazione nel box più avanti).[11]

“Thus, the liabilities of  originally private debtors in bilateral relationships reflected in the countries’ positive cumulated financial accounts have been replaced by the Target liabilities of their central banks. Similarly, the claims of private creditors have been replaced by the Target claims of their central banks. Given that the Target balance is a claim or a liability vis-à-vis the ECB, this means that the ECB through its increased intermediation function largely substituted for the bilateral claims and liabilities contracted in the first place between, essentially, private agents, and associated in particular with the countries’ cumulated  current account balances” (ibid: 23). “Without the Eurosystem accommodating the liquidity needs of solvent banks in countries under strain – and in absence of the possibility for exchange rate realignments within a monetary union – disorderly adjustments may have arisen, with adverse implications for the economies, as well as for price stability in the euro area as a whole” (ibid: 24).

Se dunque la banca centrale non l’avesse fatto, ciò avrebbe dato luogo ad aggiustamenti dolorosi.

“Eurosystem liquidity support as reflected in the associated Target balances – and this is one of the hypotheses of this paper – has helped to smooth the balance of payments adjustments in EMU. Target balances are not a separate mechanism. The Eurosystem liquidity support was given to the normal counterparties in central bank operations, namely banks, to support their liquidity position. In no way was there any aim to provide funds to finance current account imbalances – these are all indirect effects of a monetary policy aimed at maintaining price stability in the euro area”  (ibid: 23).

Il passo che indico in corsivo è decisivo: la Thimann ammette che l’effetto indiretto della politica monetaria è stato quello di “finanziare gli squilibri delle partite correnti”, raccogliendo sia il punto di Sinn dello stealth bail-out, che quello dell’esistenza di meccanismi monetari automatici o dovuti.

“At the same time, while the resulting stabilisation via Target balances offset the sudden lack of private financial flows, the Eurosystem intermediation did not foster a rebalancing in the balance of payments alone. This stabilizing action gave time for policymakers to address the underlying causes of the imbalances – the question is whether this time is being used effectively (ibid: 24)”.

Evidentemente l’azione della BCE non poteva condurre all’aggiustamento degli squilibri esterni, ma solo a dar tempo perché questi squilibri venissero risolti dalla politica economica; questa ha agito, come già detto, nella direzione unilaterale consistente dell’imposizione di misure restrittive ai paesi periferici.[12]

La mia interpretazione di Target 2 e della crisi dell’Eurozona è stata in parte criticata da Marc Lavoie (2014), un prominente economista eterodosso, a cui ho risposto in Cesaratto (2014) (si veda il box in fondo a questa lezione).


 BOX: Emergency Liquidity Assistance

A scanso di equivoci, quando sopra affermavo che è il medesimo Eurosistema che ripresta i fondi parcheggiati presso le banche centrali nazionali dei paesi core alle banche commerciali dei paesi periferici attraverso la concessione di liquidità da parte delle banche centrali nazionali dei paesi periferici, mi riferivo al fatto che le operazioni di rifinanziamento (MRO e LTRO, v. lezione 1 e nota 4 sopra) sono tecnicamente decentrate presso le banche centrali nazionali. I criteri con cui le banche commerciali possono accedere alla liquidità (tassi, durata rifinanziamento, collaterale accettato) sono però decisi in maniera uniforme dall’Eurosistema che anche si assume il rischio solidale delle operazioni. Il ruolo delle banche centrali nazionali è invece meno tecnico (da branca operativa) ma più sostanziale nelle operazioni di Emergency Liquidity Assistence (ELA). In questo caso la banca centrale nazionale pur agendo caso per caso previa autorizzazione della BCE, si assume il rischio dell’operazione.[*] Le operazioni sub ELA non entrano infatti nel bilancio dell’Eurosistema, ma solo in quello della banca centrale nazionale che le ha condotte. L’ELA è diventata nota al pubblico all’inizio del febbraio 2015 quando la BCE sospese le operazioni di rifinanziamento a favore delle banche greche non potendo più accettare titoli del debito sovrano greco come collaterale in quanto essi non rispettavano più almeno uno dei due criteri posti da Francoforte. I criteri sono: una valutazione minimamente positiva da almeno una delle principali agenzie di rating (non rispettata da Atene) o essere in un  programma di risanamento concordato con la Troika (UE, BCE, FMI), programma appena ripudiato dal nuovo governo Tsipras. Non potendo far tuttavia fallire le banche greche, che da mesi stavano subendo una fuga di capitali, la BCE incrementò l’ammontare di liquidità che la Banca di Grecia poteva concedere attraverso l’ELA da 60 a 65 miliardi di euro (una decisione soggetta a successiva verifica periodica). Da osservare che, tuttavia, il ricorso all’ELA è assai più costoso per le banche, 1,55% contro 0,05% delle operazioni di rifinanziamento principali. In verità di ELA si era già molto parlato per il grande utilizzo che ne fece l’Irlanda al culmine della sua crisi nel 2011 (si veda http://www.skadden.com/insights/restructuring-ela-liabilities-lessons-ireland)

[*] Il rischio delle normali operazioni di rifinanziamento è invece in solido di tutte le banche centrali nazionali pro quota a seconda della partecipazione al capitale della BCE.


3) Spread e redenomination risk[13]

Ma questa non è tutta la storia. Le uscite di capitali che si sono verificate in Spagna e Italia, in maniera più massiccia dal 2011, hanno riguardato sia prestiti alle banche che agli Stati (questo sembra riguardare soprattutto l’Italia).[14] Allora la faccenda si complica nel senso che non è difficile intuire che una parte cospicua dei fondi di cui le banche si sono approvvigionate siano stati utilizzati per rimpiazzare gli investitori stranieri nell’acquisto di titoli pubblici. Vista nel suo complesso le vicende del 2011 sarebbero dunque più o meno in questi termini. Nel 2011 la crisi contagia i debiti sovrani di Italia e Spagna.[15] La prima aveva un rapporto debito/Pil elevato già prima della crisi. La seconda l’ha invece visto crescere per effetto della crisi, dunque sia per il venir meno delle forti entrate fiscali dovute all’elevata crescita pre-crisi guidata dalla bolla edilizia, che per gli aiuti al sistema bancario gravato dalle conseguenze dell’esplosione della bolla. La crisi di fiducia sulla solvibilità dei due stati, con un debito denominato in una moneta straniera (l’euro), determinò un aumento dei tassi di interesse sui titoli sovrani di questo paesi, aumento misurato dal differenziale fra i tassi sui titoli decennali da loro emessi rispetto al titolo decennale tedesco, i famosi spread. In un processo che si autoalimenta, l’aumento dei differenziali segnala il pericolo che questi paesi siano costretti a uscire dai mercati finanziari a fronte di tassi troppo elevati (che renderebbero esplosivo il rapporto debito/Pil) e siano perciò costretti a ritornare all’emissione della propria valuta e alla ridenominazione del proprio debito in questa valuta al fine di poter far fronte ai pagamenti. Ridenominato il debito e con una propria banca di emissione, gli Stati sarebbero in grado di restituire il valore nominale del debito in scadenza e far fronte ai pagamenti correnti (interessi sul debito, stipendi, pensioni ecc.). Gli investitori stranieri temono tuttavia la ridenominazione in quanto si troverebbero in mano dei titoli che, con un probabile deprezzamento del cambio estero della nuova valuta di denominazione, perderebbero valore rispetto alle divise estere (se per esempio un investitore avesse acquistato un titolo italiano al valore nominale di 100 euro, questo fosse ridenominato in nuove lire (n£) sì da avere un nuovo valore nominale di 100n£, e la n£ rapidamente si deprezzasse rispetto all’€ sì da valere 1n£ = 0,7€, il valore del titoli in euro sarebbe 0,7€ con una perdita del 30% per l’investitore. Gli spread misurano dunque il classico rischio di svalutazione (depreciation risk) che nel caso specifico coincide con il rischio di ridenominazione del debito in una nuova valuta nazionale, o convertibility risk come lo definì Draghi. I prestito LTRO a tre anni divennero dunque funzionali a una sostituzione delle banche nazionali in luogo degli investitori stranieri nel sostegno dei debiti pubblici nazionali. L’intervento delle banche nazionali divenne anche la precondizione per cui i Tesori nazionali furono in grado di restituire i debiti pubblici in scadenza.[16] A ben vedere, dunque, l’operazione LTRO a tre anni fu anche una maniera surrettizia con cui la BCE sostenne i debiti sovrani di Italia e Spagna.[17] Piuttosto che intervenire direttamente, come aveva timidamente fatto con il SMP, la BCE intervenne invece indirettamente, lasciando alle banche la scelta su quali titoli acquistare (pubblici o privati) e nei fatti offrendo loro l’opportunità di un carry-trade[18] sui titoli pubblici. Nei fatti, dunque, sebbene così condotta l’operazione LTRO consente agli Stati di rifinanziarsi e agli investitori stranieri di recuperare i capitali che riporteranno celermente  in patria (via Target 2), il rifinanziamento per gli Stati avviene a tassi assai alti mentre le banche lucrano la differenza fra il tasso sulle LTRO (molto basso) e quello sui titoli sovrani (ben più alto). Quello che due eminenti economisti della BCE chiamano un “outsourcing” del sostegno ai titoli pubblici al sistema bancario – in luogo dell’impegno diretto all’acquisto da parte della banca centrale come nel Quantitative Easing americano – contenne, ma non ridusse gli spread.[19] In tal modo si manteneva una pressione sui paesi periferici riducendo la presunta possibilità di moral hazard (Cour-Thimann e Winkler, 2013: 39-40).[20]

Il rimpatrio dei capitali e l’operazione LTRO a tre anni portano dunque a quella che è stata definita come una balcanizzazione dei mercati finanziari. Nei fatti erano le banche nazionali italiane e spagnole ad accedere ai fondi LTRO per sostenere i debiti sovrani del rispettivo paese di appartenenza. Perché l’han fatto? Si tende a escludere una moral suasion da parte dei governi nazionali a favore dell’aspettativa di un guadagno netto assai utile a fronte delle perdite attese dai crediti in sofferenza (Angeloni et al, 2014). Il risultato fu una rinazionalizzazione dei debiti pubblici italiano e spagnolo (Menichelli, senza data), che è però solo apparente. Alla luce di quanto sopra argomentato, i capitali esteri privati ritirati dai debiti sovrani periferici e depositati da ultimo presso le banche centrali nazionali dei paesi core sono stati nei fatti (dunque in pratica, se non in  teoria) intermediati dall’Eurosistema via LTRO a favore delle banche periferiche che li hanno impiegati nel rifinanziamento dei titoli sovrani (ciò che ha anche permesso agli investitori stranieri di poter recuperare le somme investite). Il debito netto con l’estero di Italia o Spagna non è però mutato, nel senso che al debito privato si sono sostituiti dei debiti “ufficiali” la cui dimensione precisa è data dai saldi negativi Target 2 (e specularmente, sebbene più approssimativamente, dal ricorso del sistema bancario dei due paesi al rifinanziamento dell’Eurosistema).

Se si osserva la figura 4, ciò che si nota in particolare è che della liquidità provvista dall’Eurosistema (liquidity provision) – che è superiore alle necessità di rifinanziare le banche soggette a rimpatrio dei capitali sebbene chiaramente cresca all’aumentare dei rimpatri quale si riflette nell’andamento dei saldi Target 2 – la parte ridepositata presso l’Eurosistema (liquidity absorption) coincide molto bene con l’andamento dei saldi Target 2.

fig. 4

Figura 4 – Fonte: Thimann (2013)

http://www.cesifogroup.de/portal/page/portal/DocBase_Content/ZS/ZS-CESifo_Forum/zs-for-2013/Forum-Sonderheft-Apr-2013.pdf

La figura 5 mostra lo stato patrimoniale dell’Eurosistema nei giorni della sua massima espansione.

fig. 5Figura 5 – Fonte: http://www.bcl.lu/fr/publications/cahiers_etudes/92/BCLWP092.pdf

Si osservano vari fatti. A confronto col settembre 2011 (figura 4 della lezione 2), la richiesta di rifinaziamento (MRO + LTRO) più che raddoppia, mutando la propria composizione con le MRO che si contraggono fortemente rispetto alle LTRO (risultato dell’operazione VLTRO, si rammenti “V” sta per “very long term…”). Il ricorso al deposito marginale quadruplica, per le ragioni sopra esposte. Si dimezza la domanda di riserve per l’abbattimento del coefficiente di riserva obbligatoria dal 2% all’1%.

4) 2012: L’anno dei Draghi (OMT)

L’operazione LTRO a tre anni serve a guadagnare tempo, ma non muta la crisi di fiducia nei debiti sovrani di Italia e Spagna. Nel luglio 2012 si fa più seria la possibilità che Spagna e Italia possano incorrere in tassi di interesse proibitivi ed essere costrette a ridenominare il proprio debito sovrano in una loro nuova moneta di emissione. Dopo la famosa dichiarazione di Draghi del 28 luglio 2012, il 2 agosto la BCE annunciò, formalizzandola il 6 settembre, la ripresa potenziale degli acquisti di titoli pubblici già effettuata nel 2010 e poi nel 2011 con il SMP, ma questa volta su una scala potenzialmente illimitata.[21] L’acquisto di titoli nel mercato è fra le operazioni previste nell’armamentario della BCE e va sotto il nome di Outright Market Transactions (OMT), e sotto questa denominazione tale nuova misura non-convenzionale – cioè che non rientra fra quelle normalmente impiegate dalla BCE sebbene prevista – viene da allora ricordata. La giustificazione ufficiale per l’OMT rimane sempre quella dell’assicurare la trasmissione della politica monetaria, ma questa volta l’obiettivo di impedire una crisi dei debiti sovrani è più palese, se non proprio apertamente dichiarata. A differenze del SMP i cui acquisiti erano deliberatamente limitati, la dimensione potenzialmente illimitata dell’OMT e il timore – probabilmente soprattutto tedesco – che sulla scorta di questo intervento i paesi problematici potessero dismettere le politiche di aggiustamento fiscale,[22] fa accompagnare un possibile intervento della BCE a una forte condizionalità, vale a dire l’ingresso del paese in oggetto in un programma di sostegno europeo sub ESM.[23] In tal modo l’intervento della BCE viene subordinato a un coevo sostegno fiscale degli altri paesi europei e alla cessione della sovranità fiscale del paese soccorso – la violazione del memorandum di aggiustamento comporterebbe infatti l’interruzione del programma OMT.

L’OMT appare dunque piuttosto farraginoso nella tempistica – un intervento della BCE è subordinato a trattative fra il paese e la Commissione europea – e potrebbe essere interrotto se, come probabile, le misure di aggiustamento fiscale si rivelassero inutili o insostenibili, interruzione che condurrebbe all’esito fatale dell’uscita del paese dalla moneta unica, proprio ciò che si voleva scongiurare. Pende inoltre sull’OMT il ricorso intentato in Germania presso la Corte Costituzionale tedesca contro l’OMT, che violerebbe il principio che la BCE non debba finanziare i debiti sovrani; com’è noto, la Corte di Karlsruhe ha rimandato una decisione finale alla Corte di Giustizia Europea. Questa ha espresso un parere provvisorio nel gennaio 2015 piuttosto favorevole alla BCE.

Pur con questi limiti, che fanno pensare che l’OMT sia in parte un bluff, esso è stato certamente efficace nel ridurre i tassi di interesse a lungo termine per Spagna e Italia a livelli più sostenibili. Quale fosse questo livello, uno studio della Banca d’Italia (De Cesare et al. 2012) tempestivamente pubblicato il 4 settembre 2012 si incaricò di calcolarlo per l’Italia: 200 punti. Questo, naturalmente, risultante da una valutazione del rischio-sovrano sulla base di “fondamentali” macroeconomici e fiscali. Si mancava di indicare che il rischio sovrano lo fa la banca centrale medesima che può o meno sostenere i titoli governativi. In effetti la discesa degli spread verso quella quota e anche oltre si è manifestata, incoraggiata sia dall’abbondante liquidità posta a disposizione dal QE americano che, nel 2014, dall’attesa di un QE europeo (lezione 4). Il fatto che gli spread siano (per ora) caduti ben oltre i 200 punti di per sé mostra quanto lo studio della Banca d’Italia fosse poco fondato dato che alcuni “fondamentali” sono in questi due anni peggiorati e che, dunque, non vi fosse un livello oggettivo per gli spread. Lo spread dipende da ciò in cui i mercati ritengono di dover credere – molto soggettivamente e spesso poco oggettivamente – e da quello che la Banca Centrale ritiene di far loro credere. Se la BCE avesse indicato in 50 punti base lo spread da essa considerato di equilibrio, i mercati l’avrebbero seguita. Ma questo avrebbe esposto la BCE alla solita accusa di fomentare il moral hazard nei paesi periferici.

Un effetto dell’OMT è stata la ripresa dei prestiti interbancari con la restituzione anticipata dei fondi LTRO durante il 2013 e 2014. La figura 6 relativa all’ottobre 2013 mostra il quasi dimezzamento dei rifinanziamenti LTRO. Corrispondentemente v’è il crollo dei fondi depositati nella deposit facility, solo in misura ridotta compensato dall’aumento dei fondi detenuti dalle banche nel conto di riserva. Si rammenti infatti che dal 5 luglio 2012 la deposit facility cominciò a rendere un tasso di interesse nullo, per cui cominciò a essere indifferente per le banche detenere l’eccesso di riserve nel conto di riserva o  nel deposito marginale.

fig. 6

Figura 6 – Fonte: http://www.bcl.lu/fr/publications/cahiers_etudes/92/BCLWP092.pdf

5) Cosa abbiamo imparato?

In questa lezione abbiamo imparato come la BCE, in particolare attraverso l’operazione VLTRO lanciata nel dicembre 2011, abbia rifinanziato la perdita di liquidità dei paesi periferici che vedevano il rimpatrio attraverso Target 2 dei prestiti precedentemente ricevuti dai paesi “core”. In pratica, la liquidità creata via VLTRO è stata utilizzata dalle banche commerciali periferiche per acquistare i titoli di Stato non più desiderati dagli investitori dei paesi “core”. La liquidità creata a favore delle banche dei paesi periferici è così defluita verso i paesi “core” finendo depositata nei conti di riserva presso la BCE delle banche commerciali di quei paesi. Abbiamo accennato alle controversie su Target 2. Non riteniamo al fondo sbagliata la tesi di Sinn che nei fatti la BCE abbia riprestato attraverso le operazioni di rifinanziamento i fondi che gli investitori “core” ritiravano e depositavano, come ora ricordato, presso di essa. Senza questo rifinanziamento la crisi europea sarebbe esplosa come una classica crisi di bilancia dei pagamenti (e crisi del debito sovrano) una volta che i paesi periferici, a corto di liquidità, non avessero potuto più rimborsare i debiti a scadenza che i creditori non volevano più rifinanziare (Cesaratto 2013, 2014).

Nel marzo 2012 il bilancio della BCE (ma sarebbe più preciso dire dell’Eurosistema) raggiunse il suo massimo.[24] L’operazione VLTRO non fu però sufficiente a riportare la fiducia nella sostenibilità dei debito sovrani di Italia e Spagna che, nel luglio 2012, si trovarono sull’orlo dell’uscita dall’euro. Alla BCE non restò a quel punto che agire (finalmente) come prestatore di ultima istanza attraverso l’OMT, garantendo in maniera illimitata la sostenibilità dei debiti sovrani dei due grandi paesi mediterranei. L’OMT non incise direttamente sul bilancio della BCE, essendo rimasto una minaccia di intervento mai nei fatti attuata. Incise tuttavia indirettamente nel senso che dalla fine del 2012 sono ripresi i flussi di capitale verso i titoli sovrani periferici consentendo alle banche commerciali periferiche di alleggerire la propria posizione in questi titoli e cominciare a restituire i fondi LTRO. Questo determinò uno sgonfiamento del bilancio della BCE (e una contemporanea riduzione dei saldi Target 2). Nella prossima lezione vedremo come, tuttavia, le promesse di ripresa nel 2013 e poi nel 2014 non si siano avverate, anzi il fantasma della deflazione si è fatto più reale, inducendo la BCE a nuove misure sino al famoso Quantitative Easing adottato al principio del 2015.


BOX Crisi, che crisi?
Ci si potrebbe domandare: ma se Target 2 ha evitato che la crisi dei paesi europei degenerasse in una classica crisi di bilancia dei pagamenti – quale si sviluppa quando i creditori smettono di prestare e anzi ritirano i propri capitali – mentre l’OMT ha riportato la fiducia nei creditori e drasticamente ridotto il rischio di ridenominazione e dunque gli spread, allora 1 + 1, la crisi europea poteva essere evitata da un più tempestivo e risoluto intervento della BCE a sostegno dei debiti sovrani. Alcuni autori (come Paul De Grauwe, Marc Lavoie o Randall Wray) giungono ad affermare che, anzi, neppure si deve parlare di crisi di bilancia dei pagamenti in una unione monetaria dotata, com’è normale, di un sistema come Target 2 (combinato a strumenti di rifinanziamento presso la banca centrale): unioni monetarie non possono soffrire di crisi di bilancia dei pagamenti. E se vi è stata crisi, questa è stata dovuta ai vincoli posti al mandato della BCE, impedita a intervenire risolutamente a riportare la fiducia sui debiti sovrani, e alle sciagurate politiche di austerità.
Per verificare quanto c’è di vero in questa posizione, facciamo un esperimento mentale. Supponiamo che, forti dell’analisi degli studiosi menzionati, gli Stati Uniti abbandonino il loro modello di unione monetaria in favore di un modello all’europea dotato, rispetto al modello esistente, di una banca centrale accomodante e non arcigna come la BCE. Un modello europeo significa che fra gli Stati americani non vi saranno più cospicui trasferimenti fiscali fra Stati più affluenti e Stati più poveri. Poco male, tuttavia, in quanto forti di una banca federale impegnata a un sostegno “whatever it takes” ai debiti sovrani, i membri più poveri espanderanno i disavanzi pubblici in violazione di ogni eventuale patto di pareggio di bilancio. Dal canto loro, le banche periferiche, soprattutto se assecondate da una politica di bassi tassi di interesse della banca centrale, comincerebbero ad elargire crediti a buon mercato forti, se le cose buttassero male, di un sicuro bail-out da parte degli Stati periferici (a loro volta sicuri del bail-out della banca centrale). Tale politica si tradurrà in cospicui disavanzi e debiti esteri. Ma poco male. Anche se non affluissero prestiti privati dagli Stati più ricchi, i pagamenti potrebbero continuare ad essere effettuati via Target 2, mentre le banche si incaricherebbero di ricaricare di euro le riserve degli Stati poveri via i meccanismi di rifinanziamento. Le banche periferiche sosterebbero così i debiti sovrani dei propri Stati a bassi tassi in quanto fiduciose che quei debiti sono garantiti dalla banca centrale. Questo apparente regno del bengodi può andare incontro a due esiti. Nel primo gli Stati ricchi direbbero a un certo punto “ora basta!” Imponendo alla banca centrale di smettere di rifinanziare gli Stati poveri (o perlomeno limitarsi) e a questi ultimi di fare contrizione con misure di austerità che, attraverso saldi positivi di partite correnti, consentano loro di restituire il debito estero. In fondo, gli eventi come sin qui narrati in forma un po’ esagerata non si discostano però tanto, mutatis mutandis, da quelli di Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda prima e dopo la crisi. Un secondo possibile esito è che dei partiti populisti vincano le elezioni nei paesi ricchi con un programma di emulazione dei paesi poveri, dunque cospicui disavanzi pubblici e credito a go go. Il risultato probabile è una forte inflazione e, si può supporre, indebitamento estero del complesso dell’unione monetaria.
E’ dunque molto probabile che qualche economista di buon senso convincerà il Congresso americano a non abbandonare il modello corrente di unione monetaria americano, opportunamente definito “viable” da Barba & De Vivo (2013), a favore di un modello all’Europea – definito “flawed”- malamente emendato (la “terza via” di De Grauwe, Lavoie e Wray) che, come s’è visto, non funziona. La verità è che un’unione monetaria può sopravvivere solo se v’è una unione politica come suo fondamento, vale a dire la disponibilità dei membri più ricchi a sostenere quelli più disagiati attraverso un cospicuo bilancio federale e una banca centrale che sostiene la politica fiscale federale (mentre gli Stati locali sono votati al bilancio in pareggio). Naturalmente i membri più poveri, sostenuti dai trasferimenti fiscali, costituiranno un mercato per i membri più ricchi (ibid). Ma questo mercato sarà pur sempre sostenuto da elargizioni a fondo perduto da parte dei cittadini degli Stati benestanti. Questi ultimi ci penseranno dunque due volte ad aderire a un’unione politica che abbia queste conseguenze e che, infatti, in Europa non si farà MAI. Essi preferiranno prestare agli Stati più poveri, più che regalare, sebbene la storia insegni che l’esito dei prestiti sia spesso una crisi debitoria. Dunque? Allora in assenza di un afflato verso un’unione politica, meglio sarebbe stato che in Europa ciascuno si fosse tenuto la propria moneta, con accordi di stabilizzazione dei tassi di cambio, aggiustabili quando i “fondamentali” non li avessero più sorretti; prestando molta attenzione che i cambi fissi non si traducessero in uno stimolo a prestiti internazionali che culminano in crisi debitorie (Cesaratto 2012); emendando le asimmetrie del sistema monetario europeo (Vianello 2005). La tragedia è che il mercantilismo tedesco sarebbe stato un problema anche in quel contesto, ma aver cercato di limitarlo con la moneta unica è stato il classico salto dalla padella alla brace.


 

 

Riferimenti bibliografici
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Minenna, M. (2014) Il Programma di Rifinanziamento del Debito Pubblico Europeo, http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2497396
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Winkler, A. (2014), The ECB as Lender of Last Resort: Banks versus Governments, FMG Special Papers sp228, Financial Markets Group.

 

[1] Ringrazio Giancarlo Bergamini per i suoi commenti di forma e di sostanza.

[2] Se, essendo residenti a Roma, avessimo acquistato una bottiglia di barbera stravecchio effettuando un bonifico a Intesa-San Paolo, la Banca d’Italia avrebbe trasferito riserve da Unicredit a Intesa senza dar luogo a strane scritture contabili fra Piemonte e Lazio da cui risulta che, rispettivamente, la succursale della Banca d’Italia nel Lazio ha un debito e la succursale piemontese un credito verso il quartier generale di via Nazionale.
[3] Paribas ha ricevuto un nuovo deposito di 100€ (l’accredito al titolare della ditta di vini) e riserve per 100€. Ma a fronte del nuovo deposito necessita solo di 1€ di riserva obbligatoria, sicché può prestare nell’interbancario 99€. Questo è precisamente quanto necessita Unicredit che, simmetricamente ha perso un deposito di 100€ (il nostro bonifico) e 100€ di riserve. Ne deve recuperare 99, non 100 in quanto 1€ di riserve non le serve più poiché ha un meno 100 di depositi.
[4] Se l’Italia acquista lo champagne senza dare nulla in cambio alla Francia, per esempio del Parmigiano, non sorprende constatare che la transazione dà luogo a un debito dell’Italia verso la Francia. Se, viceversa, allo stesso tempo l’Italia vende del  Parmigiano alla Francia per uno stesso valore dello Champagne, è intuitivo che debiti e crediti reciproci si annullano.
[5] Si rammenti che il rifinanziamento è decentrato presso le BCN che compongono l’Eurosistema. Questo è un fatto meramente tecnico-organizzativo. Le riserve create dalle BCN a favore delle banche commerciali sono una passività che, al pari delle corrispondenti attività, vale a dire i titoli ottenuti dalle banche come collaterale, entrano nel bilancio dell’Eurosistema.
[6] Si supponga una banca con 100 milioni di depositi e 1 milione di riserve. A fronte di un ritiro di 1 milione di euro, la banca perde le sue riserve. A parte il mancato rispetto della riserva obbligatoria, essa non potrebbe più far fronte a un successivo ritiro di un altro milione di euro. Per questa ragione, non essendo in grado di ricevere nuovi prestiti interbancari, essa deve ricorrere al rifinanziamento dall’Eurosistema. Questo ogni qualvolta perde depositi. Questo evita alla banca di tagliare la concessione di nuovi prestiti o il non rinnovo di quelli in scadenza (per ridurre l’ammontare di depositi) o una svendita di titoli in suo possesso per rastrellare liquidità, svendita (fire sales) perché in una fase di crisi il mercato non è probabilmente dei migliori visto che altri staranno ricorrendo alla stessa misura.
[7] La figura funziona così. Essa comincia con i flussi netti del luglio 2011 quando, per esempio, gli investimenti stranieri in titoli privati italiani diminuirono di 12,2 miliardi di euro, i depositi e prestiti raccolti dalle banche italiane decrebbero di 9,3 miliardi e gli investimenti stranieri in titoli pubblici calarono di 13,9 miliardi, per un complesso (A+B+C) di 35,4 miliardi. Nell’agosto 2011 queste tre voci ebbero di nuovo tutte un segno negativo (cioè minori investimenti esteri) per cui cumulando i valori negativi di luglio e agosto le tre grandezze risultarono -13,9, -14,2 e -37,4  per un totale di 65,5. E così via per i mesi successivi. Naturalmente il saldo complessivo diminuisce nei mesi in cui gli investimenti esteri aumentano, cioè riaffluiscono capitali. Il saldo Target 2 non è un risultato automatico del saldo complessivo (per esempio per errori od omissioni nei dati), ma è in gran parte spiegato da queste voci.
[8] Il disavanzo delle partite correnti è frutto sia di saldi commerciali negativi che del pagamento degli interessi sul debito che matura in seguito ai disavanzi.
[9] In maniera analoga il Directorate General for Economic and Financial Affairs della Commissione Europea si riferisce ai “TARGET2 balances being the equivalent of foreign currency reserves. However, unlike reserves, and although TARGET2 flows are recorded as central bank transactions with the rest of the Eurosystem, they do not involve concrete transactions between the national central bank and a foreign central bank since the liquidity is provided at the national level” (EU 2015: 9).
[10] I casi di Grecia, Portogallo e Irlanda che dal 2010 non poterono più rifinanziarsi a tassi ragionevoli, mostra il limite che del sostegno delle banche nazionali, rifinanziate dall’Eurosistema, ai debiti sovrani. Le banche nazionali sono infatti indebitate verso l’Eurosistema in euro e sono dunque soggette, nell’acquistare titoli del debito pubblico nazionali, al rischio di ridenominazione trattato più avanti per cui domanderanno un tasso di interesse che le copra da questo rischio.
[11] Vedi anche Coeur-Thimann e Winkler (2013: 32): “asymmetric recourse to the Eurosystem’s non-standard measures and, in particular, the concentration in the distribution of central bank  liquidity to banking systems in countries under stress (…), compensated for a retrenchment of private cross-border financing, de facto intermediating liquidity flows inside the  euro area via the Eurosystem balance sheet.”
[12] Misure di bilancio pubblico restrittive fanno diminuire il reddito nazionale e le importazioni, e per questa via conducono agli avanzi di partite correnti necessari per la restituzione del debito estero.
[13] Su linee simili si veda Minenna (2014).
[14] La Grecia dalla primavera 2010, Irlanda e Portogallo alla fine del medesimo anno erano già fuori dai mercati finanziari, cioè impossibilitati a rifinanziare il debito pubblico a tassi ragionevoli ricorrendo ai mercati. Il loro default fu impedito dall’intervento dei paesi europei, con prestiti bilaterali (nel caso greco) e dello European Financial Stability Facility (per tutti e tre i paesi), e del FMI. Ca va sans dire che il salvataggio avvantaggiò fondamentalmente le banche prestatrici, particolarmente quelle tedesche e francesi (queste ultime in genere intermediarie di fondi tedeschi), che poterono recuperare buona parte dei crediti.
[15] La spiegazione prevalente del contagio è nella famosa passeggiata di Merkel e Sarkozy a Deauville nell’ottobre 2010 quando, su insistenza tedesca, essi concordano il “private sector involvement” (PSI) nell’eventuale salvataggio dei paesi periferici, cioè la partecipazione dei privati alle perdite dovute alla ristrutturazione dei debiti sovrani. Tale principio ebbe effettiva applicazione nella ristrutturazione del debito greco nel marzo 2012 (ma a quel punto le banche tedesche e francesi avevano già riottenuto i capitali investiti e vittima del PSI furono principalmente le banche greche). Comunque sia, gli investitori privati persero la sicurezza di un salvataggio pubblico europeo degli Stati in difficoltà e ciò comportò una crisi di sfiducia verso i titoli italiani e spagnoli, in assenza di un sostegno fermo da parte della BCE. Così Orphanides (2013):
“Whenever a euro area member state faced liquidity pressures (not necessarily solvency concerns), the imposition of losses on private creditors would be demanded before euro area governments agreed to provide any temporary assistance. Message to potential investors: Euro area sovereign debt should no longer be considered a safe asset with the implicit promise that it would be repaid in full. The introduction of credit risk in euro area sovereign debt raised the cost of financing for euro area governments perceived to be relatively weak. The first casualty was Ireland that lost access to markets within a few weeks. Portugal followed a few months later. The PSI doctrine also generated the adverse feedback loop between sovereigns and banks that has been driving weakness in the periphery since then. Although it was a blunder for the euro area as a whole, the PSI doctrine proved beneficial to Germany, suggesting an adversarial approach to the crisis was taking hold among the member states.”
Questo avvalora la tesi di chi sostiene che la crisi dei debiti sovrani sia stata in realtà dovuta a una cattiva gestione della situazione da parte della politica economica europea e in particolare agli impedimenti frapposi a un sostegno della BCE ai debiti sovrani. Ciò è certamente vero, ma ciò non toglie che la crisi europea si riduca a questo (v. box in fondo).
Secondo Ashoka Mody (2014), Deauville ebbe un effetto irrilevante sugli spread. La causa del loro aumento sarebbe invece stato negli aiuti europei agli Stati in difficoltà e nei programmi di aggiustamento che li accompagnarono. Gli investitori privati furono automaticamente relegati in una posizione subordinata ai prestatori ufficiali nel caso di un possibile default disordinato di questi paesi, e questo accrebbe la rischiosità dei crediti. Secondo Winkler (2014), invece, Deauville determinò l’uscita dell’Irlanda dal mercato finanziario.
[16] Supponiamo che una consistente tranche di titoli pubblici venga a scadenza, come accade settimanalmente in un paese ad alto debito come l’Italia. In tempi normali ciò che accade è un roll-over del debito, in pratica l’investitore accetta titoli nuovi in cambio dei vecchi. Ma se l’investitore si vuole riportare i quattrini a casa, uno Stato privo di una banca centrale e con un debito denominato in una moneta straniera deve rapidamente trovare un nuovo compratore allo scopo di restituire i soldi dovuti. Ecco che con l’operazione LTRO a tre anni tale soccorso viene prestato dalle banche nazionali le quali hanno potuto nel frattempo provvidenzialmente approvvigionarsi di liquidità presso la BCE.
[17] In buona misura questo era vero anche per le precedenti misure di rifinanziamento illimitato delle banche a un tasso fisso adottate con l’”enhanced credit support”.
[18] Cioè di indebitarsi a tassi bassi per investire in titoli con un più alto rendimento.
[19] Si mantenne la pressione riducendo gli spread soprattutto sui titoli a più breve scadenza – com’è evidente poiché i fondi LTRO erano a tre anni – ma solo contenendo quelli più a lungo termine, impedendo dunque che i governi potessero ottenere condizioni più vantaggiose sui prestiti a più lunga scadenza scoraggiando così le misure di “risanamento”. La riduzione degli spread non poteva che essere contenuta in quanto le banche che si sono avvalse di fondi LTRO per sostenere i propri debiti sovrani nazionali si approvvigionavano in euro, per cui anch’esse avevano la necessità di una copertura dal redenomination risk.
[20] Al riguardo, il giudizio di Artus (2014), che usa il termine “subcontracting”, ci sembra pertinente:
“The crisis that started in 2008 forced central banks to intervene in government bond markets to drive down long-term interest rates. The main difference between the United States and the euro zone is that the Federal Reserve has been buying Treasuries directly, while the ECB has “subcontracted” the government bond purchases to banks by largely refusing to book government bonds in its balance sheet. This results from the ECB’s quite firm rejection of the idea that a central bank should finance fiscal deficits and accumulate risky assets, and its refusal to take the risk  of irreversibility linked to purchases of securities compared with repos. To assess these two monetary policy approaches we must answer the following question: what is more dangerous: that the central bank or commercial banks accumulate huge portfolios of government bonds? We believe it is more dangerous when banks hold these portfolios, and, accordingly, that the Federal Reserve’s practice is less dangerous than that of the ECB”.
In sostanza l’affidamento del sostegno dei debiti sovrani alle banche commerciali dei paesi in difficoltà avrebbe fomentato il famoso “doom loop” fra crisi bancarie e crisi sovrane.
[21] Nel giugno 2012 c’è una seconda famosa dichiarazione europea, quella che annunciava una solida e solidale Unione Bancaria. Per dare un senso a questa dichiarazione, si può in sintesi ricordare come negli Stati Uniti le crisi bancarie che hanno luogo in singoli membri dell’Unione sono risolte con un intervento, anche finanziario, federale. Si evita così che i singoli Stati, privi come quelli europei  di una propria banca centrale, si carichino del salvataggio delle banche creando ciò che è stato definito come un “abbraccio mortale” (doom loop) fra banche e Stati. Così il vertice europeo del 29 giugno 2012 solennemente affermò:  “We affirm that it is imperative to break the vicious circle between banks and sovereigns”. La banking union europea che ha preso definitivamente forma nel 2014 è tuttavia ben diversa da quella Americana. Si limita infatti a unificare, e neppure completamente, la supervisione degli istituti di credito, compito affidato alla BCE. Il meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie e fondamentalmente basato sul “bail-in”, vale a dire sul far ricadere le perdite sugli azionisti e sui creditori più facoltosi delle banche in difficoltà. Un soccorso europeo (bail-out), via il fondo europeo ESM (European Stability Mechanism), è previsto solo una volta che il settore privato abbia sopportato una parte notevole di perdite. L’assicurazione per i piccoli depositi (sino a 100 mila euro) è assicurata da un fondo assicurativo che verrà costituto dalle banche europee nei prossimi anni. Due semplici letture consigliabili sono: Nolan (2013) e Gros (2013).
[22] Politiche fiscali del tutto controproducenti, naturalmente.
[23] Lo European Financial Stability Facility (EFSF) creato dai paesi dell’UE nel maggio 2010 è intervenuto con prestiti a Portogallo, Irlanda e Grecia. Lo European Stability Mechanism (ESM) istituito nell’ottobre 2012 ha sostituito l’EFSF nei successivi interventi (sostegno alle banche spagnole nel 2012 e a Cipro nel 2013). Ambedue i fondi si finanziano nel mercato con la garanzia dei Paesi europei. Nel caso dell’ESM questi i paesi apportano anche una dotazione di capitale.
[24] E’ chiaro da quanto detto come il gonfiamento delle riserve detenute dalle banche in eccesso degli obblighi di riserva, non fosse dovuto a questo punto solo a ragioni di cautela, ma al rimpatrio dei prestiti che i paesi core avevano concesso ai paesi periferici.

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