Una nota sulle definizioni di proprietà pubblica

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The global financial crisis of 2007-2008 has reinvigorated criticism on the process of privatization during the previous decades. There are now several voices that ask for a renewed role of the State in the economic field, both in the academy and (sometimes) in the political debate. On the other hand, the numerous interpretations of the process of privatization have further contributed to the fragmentation of the topic, both in theory (what is meant with public ownership) and in empirical analysis (which juridical and organizational form is used by state- owned enterprises). To bring back the debate on a shared and homogenous base, it is useful to distinguish the process of nationalization from the one of socialization, as well as establishing which variables are relevant to update their definition.

L’ondata di privatizzazioni degli anni Ottanta iniziata dal governo Thatcher e dalla Presidenza Reagan, continuata in Europa in seguito al crollo del muro di Berlino, preceduta e accompagnata dalle teorie sul fallimento del non-mercato, hanno a lungo silenziato il dibattito sul ruolo della proprietà pubblica in economia. Il decennio seguito alla crisi economica del 2007-2008 si è rivelato invece un terreno fertile per riprendere il confronto tra le potenzialità della proprietà pubblica e quelle dell’impresa privata, sia sotto il profilo dell’efficienza che in forza dei temi (finalmente) emergenti della democrazia economica, della distribuzione della ricchezza e della salvaguardia ambientale. Così, all’ampiamente citato articolo di William Megginson e Jeffrey Netter (2001), in base al quale la conclusione era che “research now supports the proposition that privately owned firms are more efficient and more profitable than otherwise-comparable state-owned firms” si possono oggi valutare visioni contrapposte per cui “there is no support for the claim that private enterprises have better performance ceteris paribus than public enterprises” (Muhlenkamp, 2015), cui uno degli stessi autori del primo articolo si riferisce come “the most definitive overview on the subject of comparative public- private efficiency” (Hall 2018: 105).

Alla critica alle privatizzazioni non segue in genere la proposta di un ritorno alla proprietà pubblica. Gli autori de Il capitale quotidiano (Barbera et al. 2016), legati al filone di ricerca dell’economia fondamentale, teorizzano ad esempio una licenza sociale – pur dalle caratteristiche non ancora definite – che dovrebbe informare gli obiettivi di imprese sia pubbliche che private ove gestiscano, ad esempio, i settori delle public utilities e quello alimentare(1). Mariana Mazzucato, nel suo Lo Stato innovatore, sottolinea invece la necessità di un maggiore ruolo dello Stato nell’economia, poichè è il settore pubblico che può fornire i “capitali pazienti” necessari nei settori economici maggiormente innovativi e “verdi” (Mazzucato 2013: 198 e ss.). Lo Stato potrebbe poi mantenere una quota delle azioni nelle aziende che ricevono finanziamenti pubblici per recuperare l’investimento (ibid.: 275). Altri autori, invece, evidenziano la necessità del ritorno del “pubblico” in economia, non esclusivamente nell’attività di regolazione, ma anche in quella della produzione diretta di beni e servizi (Cumbers 2012; 2017, Hannah 2018; Olin Wright 2010; 2016) .

La differenza tra le visioni qui sopra appena accennate sfugge alla tradizionale distinzione tra il concetto di “nazionalizzazione” (e quello di proprietà statale) e quello di “socializzazione” (e proprietà sociale), ovvero alle possibili e diverse forme di gestione dei mezzi di produzione da parte dell’autorità pubblica. Quando invece la distinzione è rintracciabile, non è sempre chiarita e soprattutto non è utilizzata in modo omogeneo tra gli autori. Mentre nel mondo anglosassone (cfr. poco sopra) si è recentemente ripreso il dibattito teorico in materia (anche grazie alla “svolta a sinistra” del Labour britannico con Jeremy Corbyn, vedi Consultazione Partito Laburista britannico) l’arretratezza del dibattito politico italiano in materia (fatta eccezione per il settore idrico, cfr. sotto) impone l’utilizzo di una bibliografia datata. Ad esempio, nella terminologia utilizzata da Giannini (1995) la nazionalizzazione è il passaggio di proprietà al pubblico potere tramite gestione di un organismo centrale diverso dallo Stato, quale un ente pubblico, mentre una socializzazione è invece il trasferimento ad un pubblico potere rappresentato da una collettività di settore organizzata (Giannini 1995: 134). Toninelli (1996, vedi più sotto) distingue invece i due termini partendo dal sistema economico in cui sono inserite. In una materia così controversa, potenzialmente opaca, e tuttavia di recente riportata alla ribalta anche da alcune, spesso sfuggenti, dichiarazioni politiche, è utile tentare e promuovere un lavoro di sistematizzazione, di allineamento e possibilmente di aggiornamento delle definizioni che coinvolgono l’antico confronto in materia di “Stato e mercato”.

Dopo l’ondata di privatizzazioni, gli Stati – in particolare quelli europei – rimangono spesso azionisti di numerose aziende, in qualche caso mantenendone anche il controllo completo, ma con mutata forma giuridica (spesso è avvenuto il passaggio da enti di diritto pubblico a società per azioni, con un controllo maggiore o minore dell’azionista pubblico) e perciò diversi livelli di controllo che lavoratori e cittadini possono esercitare su di esse, tramite le assemblee elettive o i rappresentanti nei consigli di amministrazione.

Le prossime pagine saranno dunque dedicate all’analisi delle modalità con cui la proprietà pubblica può presentarsi in una data economia. Il tema della presenza di un mercato più o meno concorrenziale del settore in cui l’impresa si inserisce verrà solo stilizzato ai casi estremi (concorrenza e monopolio) per concentrare l’attenzione su una definizione delle dimensioni più rilevanti, così come non è qui rilevante richiamare e addentrarsi nel confronto tra pianificazione e libero mercato(2).

Nazionalizzazioni e socializzazioni

Sia il concetto di “nazionalizzazione” che quello di “socializzazione” implicano l’intervento dell’autorità pubblica (sia essa lo Stato o una sua suddivisione amministrativa), ma con significato profondamente diverso. Le origini di questa distinzione “possono essere fatte risalire al Congresso di Basilea [della Prima Internazionale] del 1869” (Toninelli 1996). In quell’occasione venne infatti per la prima volta tracciata una netta separazione tra i termini ‘nazionalizzazione’ e ‘socializzazione’, evidenziando visioni e ideologie profondamente diverse: nel primo caso proprietà e gestione statale all’interno di un sistema economico ancora capitalista, pur nell’ambito di un maggiore intervento dell’autorità pubblica in economia; nel secondo caso si faceva invece riferimento alla socializzazione dei mezzi di produzione all’interno di una economia socialista, in cui la proprietà privata sarebbe progressivamente scomparsa (cfr. sempre Toninelli 1996).

Nazionalizzazioni nella forma e nella sostanza

È importante operare anzitutto una distinzione tra nazionalizzazioni di tipo formale e di tipo sostanziale, adattandola da un articolo recente di Dorato (2017) che la utilizza per parlare però delle privatizzazioni. La privatizzazione è formale se caratterizzata dalla trasformazione dell’impresa pubblica da ente di diritto pubblico (ente pubblico, azienda autonoma, azienda speciale municipalizzata) ad ente di diritto privato (società per azioni), mantenendo però il controllo totale delle azioni; una privatizzazione sostanziale è invece una riduzione della quota azionaria dell’autorità pubblica fino, ma non necessariamente, alla sua possibile scomparsa. Una precisazione importante, perchè come cambia la forma giuridica dell’impresa cambiano gli obiettivi, non più di lungo periodo e orientati alla tutela del bene pubblico, ma piuttosto indirizzati alla massimizzazione del profitto di breve periodo e dei tassi di remunerazione del capitale investito. Fatto che accade anche in presenza di un controllo azionario pubblico totale o di maggioranza (ibid.:151).

Ciò non significa che un Ente pubblico economico non possa legittimamente perseguire il profitto, ove subordinato ad interessi pubblici preminenti (ibid.: 150). Un ente pubblico ha, per esempio, sempre la possibilità di accumulare profitti “da investire per sussidiare aree di produzione strutturalmente in perdita” (ivi)(3).

Nella misura in cui l’obiettivo sia quello di difendere un nuovo ruolo per la proprietà pubblica, è possibile partire dalle definizioni di Dorato “rovesciandone” la direzione per ottenere lo schema seguente:

Quando lo Stato acquisisce una quota di controllo o finanche l’interezza della quota azionaria di una società, si parla di nazionalizzazione formale e dunque di proprietà statale formale. Se vi è ulteriore trasformazione in ente di diritto pubblico (come un ente pubblico) e dunque gestione dell’impresa secondo criteri di interesse generale, allora si ha una nazionalizzazione sostanziale e quindi proprietà statale sostanziale. La nazionalizzazione (formale o sostanziale) può inoltre riferirsi ad una singola azienda ed essere quindi parziale (con il mantenimento di un mercato competitivo in quel dato settore) o riferirsi ad un intero settore economico ed essere dunque totale (con un monopolio pubblico “puro”).

Non è difficile identificare la proprietà statale formale (o il regime di nazionalizzazione formale) come la forma prevalente di intervento diretto dello Stato italiano in economia. L’attuale forma proprietaria di Enel, Eni ed anche l’assetto proposto per Alitalia riflettono tale intervento di matrice fondamentalmente privatistica, benchè con il coinvolgimento dell’autorità pubblica. Il seguente schema riassume le definizioni fornite in precedenza.

La socializzazione: oltre la gestione burocratica

Andrew Cumbers ha recentemente formulato (2012; 2017) un modello per una “economia di proprietà pubblica nel 21esimo secolo” (publicly owned economy in the twenty-first century) includendo nel perimetro pubblico anche le cooperative e le imprese di proprietà dei lavoratori. Un tale modello dovrebbe assicurare una molteplicità di obiettivi: (i) maggiore partecipazione dei lavoratori, dei consumatori e dei cittadini alle decisioni economiche; (ii) porre sotto controllo pubblico i settori strategici dell’economia ritenuti troppo importanti perché rimangano in mano privata; (iii) facilitare il controllo della comunità sulle risorse, specialmente nel contesto della globalizzazione; (iv) redistribuire il reddito e la ricchezza;(v) affrontare i problemi ambientali e sociali, come cambiamento climatico e disuguaglianze. Per Cumbers, le imprese di Stato potrebbero assicurare meglio il controllo dei settori strategici, mentre cooperative o imprese regionali/locali sarebbero più adatte per dare voce ai lavoratori e ai territori. In ogni caso “whatever form of ownership is chosen […] the aspiration should be towards democratic decision making in which the employees and user groups have a voice” (Cumbers 2012: 164)

Seguendo anche quanto affermato da Devine (1988) e Hahnel & Olin Wright (2016), è dunque opportuno differenziare tra la proprietà statale e la proprietà sociale, intesa quest’ultima come possesso e gestione democratica della proprietà da parte dei lavoratori. Può essere oggi intesa come un’evoluzione della proprietà statale, nella forma di una sintesi di proprietà statale e democrazia economica(4) (socializzazione statale) o come appropriazione collettiva della ricchezza senza il tramite dello Stato (socializzazione non statale). Un esempio di socializzazione non statale è la costituzione di una cooperativa di produzione e lavoro. A differenza della socializzazione statale, in questo caso l’autorità pubblica non interviene con proprie risorse o attraverso un controllo diretto, sebbene ci sia ugualmente una forma di proprietà collettiva organizzata con metodi democratici.

Analogamente alla nazionalizzazione, anche la socializzazione statale può essere sia parziale (in regime di mercato concorrenziale) sia totale (in regime di monopolio legale gestito tramite pianificazione democratica). Un esempio di socializzazione (o proprietà sociale) statale parziale è il settore automobilistico in Francia sino alla privatizzazione (formale e in massima parte anche sostanziale) della Renault. Quest’ultima, dal 1945 alla fine degli anni Ottanta, fu un laboratorio di relazioni industriali democratiche (lavoratori e sindacati partecipavano alle scelte decisionali assieme ai manager di Stato) e un modello di impresa pubblica socializzata, pur all’interno di un mercato automobilistico concorrenziale. Dopo la nuova ondata di nazionalizzazioni del 1981-82 operata dal governo social- comunista sotto la presidenza di Mitterrand, ogni nuova impresa pubblica era incoraggiata a diventare una nuova Renault (Chadeau in Toninelli 2000: 201).

Per arrivare al dibattito odierno, la proposta di legge denominata “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque” (ddl n. 52, Daga et al., 23/03/2018), discussa presso la Commissione Ambiente della Camera dei Deputati (5), prevede una gestione pubblica, decentralizzata e democratica del settore. La regolazione dei servizi idrici è trasferita dall’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente al Ministero dell’Ambiente (art. 8 comma 7), e il settore è gestito esclusivamente tramite enti di diritto pubblico (art. 10 comma 2) attraverso forme di democrazia partecipativa che coinvolgano lavoratori e abitanti del territorio di riferimento (art. 15 comma 2). Tale proposta di legge, se manterrà inalterati questi punti fondamentali, potrebbe essere un punto di partenza da estendere in altri settori, considerato che nel preambolo si afferma che “il territorio, l’energia e i rifiuti e servizi pubblici essenziali come quelli deputati a garantire un benessere locale di qualità, appartengono alla comunità e non possono in alcun modo essere sottratti alla stessa, condizionandone la fruizione da parte di tutti i cittadini e limitandone la piena partecipazione al loro governo e alla loro gestione democratica” (ibid.)

Uno schema unificante

A questo punto è possibile costruire un unico schema a tre dimensioni, i cui assi indicano la possibilità di un continuum che supera la classificazione dicotomica, nelle dimensioni di: mercato o non mercato (pianificazione), assenza o presenza di democrazia economica (come la presenza di consigli di gestione), livello di aggregazione (individui/imprese, soci, Stato) (6).

Figura 1 Schema a tre dimensioni

Partendo dal livello di aggregazione, i casi 1, 2, 3 e 4 vanno a costituire la proprietà privata (con vari gradi di cogestione(7)), i casi 5 e 6(8) la proprietà cooperativa e i casi 7, 8, 9 e 10 la proprietà pubblica. I casi 5, 6, 8 e 10 costituiscono la proprietà sociale (nella quale il 5 e il 6 sono la variante non-statale, contrapposta alla proprietà sociale statale degli altri due). I casi 7 e 9 sono invece la proprietà statale non-sociale. La tipologia presentata poco sopra ha lo scopo principale di presentare le forme di proprietà possibili in un sistema economico con particolare attenzione alle differenze tra una gestione gerarchica e burocratica della proprietà pubblica e una maggiormente democratica e partecipata. Tale elaborazione trae ispirazione da un dibattito interno al Partito laburista britannico (tuttora in corso) sulle forme alternative di proprietà possibili in economia(9). Una nuova concezione dell’impresa pubblica appare dunque uno strumento utile (se non necessario) per poter affrontare questioni oggi assolutamente dirimenti, come i problemi ambientali, la distribuzione sempre più ineguale della ricchezza, lo scollamento (disembeddedness) dell’economia dalla società e l’impoverimento della partecipazione democratica. In Italia, potrebbe essere uno strumento per assicurare la proprietà pubblica dei settori economici strategici per il Paese e dei servizi fondamentali per i cittadini, affiancando un maggiore controllo tramite le assemblee elettive e forme innovative di democrazia economica ed industriale, dando così attuazione agli articoli della Costituzione “economica”, in particolare il 43 e il 46. In particolare, la distinzione operata tra i termini di nazionalizzazione e socializzazione (e così i loro sotto-tipi) vuole evidenziare una differenza tra lo statalismo “storico” italiano (quello dell’IRI, dell’ENEL e dell’ENI, per citare i casi più importanti) ed un nuovo possibile assetto di matrice progressista, più vicino allo spirito della Costituzione.

*Università degli Studi di Firenze, simonpietro.grecu@stud.unifi.it

**Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa (DISEI), Università di Firenze. pettini@unifi.it

Note

1)Economy, CRESC Working Paper no. 131, November 2013, all’indirizzo https://foundationaleconomycom.files.wordpress.com/2017/01/wp131.pdf . Vedi anche Marotta S. (2019), L’economia fondamentale come possibile alternativa al pensiero mainstream, su Economiaepolitica.it (https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/economia-fondamentale/) per una valutazione più critica delle proposte di tale area di ricerca: “è vero anche che inserire le grandi imprese private che operano nel settore dell’economia fondamentale all’interno del settore pubblico in considerazione della funzione sociale da loro svolta non fornisce sufficienti garanzie che le stesse non perseguano esclusivamente il profitto”.

2)Per un approfondimento sulle differenze tra utilizzo del piano e del mercato, sia in economie capitaliste che in economie socialiste, si rimanda a Vasapollo L. (2011: 43-122).

3)Nella giurisprudenza italiana esiste un ampio e acceso dibattito sulle numerose questioni giuridiche sollevate dall’intervento dello Stato nell’economia (Falsone 2017). “È, innanzitutto, pacifico che non esista una definizione legale di ente pubblico applicabile “orizzontalmente” e valevole, quindi, a fornire i tratti distintivi della categoria giuridica” (ibid. 6). In questa sede non si tiene conto di gran parte di questa pur importante discussione, preferendo una distinzione “casistica” e storico-sociale. A titolo di esempio, si consideri l’Ente Nazionale Idrocarburi come esempio di ente di diritto pubblico, e Eni s.p.a. come ente di diritto privato. Vedi Dorato 2017.

4)C. B. Mcpherson (1984) definisce la democrazia come “un ordinamento del sistema economico che, in un dato paese, sia in grado di realizzare una giusta distribuzione di lavoro, reddito e ricchezza […] un tipo di società in cui tutte le persone hanno un eguale, effettivo diritto ad una vita pienamente umana [con] una misura sostanziale di controllo – o direzione – politico democratico dell’economia, che può andare da un controllo pienamente socialista della allocazione delle risorse economiche ad una maggiore minore misura di intervento dello Stato democratico in un’economia di tipo capitalistico”. La distingue dalla democrazia industriale, che “riguarda più direttamente il controllo, anche se, a dire il vero, il termine viene usato a volte come sinonimo di <<controllo operaio>>. Più ampiamente, esso implica una organizzazione di una unità produttiva per la quale tutti coloro che vi lavorano hanno realmente voce in capitolo nelle decisioni che toccano il loro lavoro. L’unità produttiva può andare dal livello dell’officina a quello della fabbrica, della grande impresa o dell’intera industria. […]”. In questa sede si utilizza il termine generale di democrazia economica inteso come sintesi di entrambi i concetti.

5)Alla data del 12 settembre 2019, la proposta di legge risulta ferma in Commissione Ambiente dal 6 marzo 2019, in attesa di una relazione tecnica da parte del Governo (XVIII Legislatura, Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari. Ambiente, territorio e lavori pubblici (VIII) Comunicato, pp. 68-74).

6)È importante specificare che le varie forme di proprietà sono rappresentate tramite cubi o parallelepipedi esclusivamente per semplicità di rappresentazione: sarebbe maggiormente opportuno pensarle come “aree” dai confini sfumati dello schema in tre dimensioni o di una sfera. In questo modo i dieci tipi qui individuati diverrebbero degli idealtipi con la possibilità di ibridarsi. Esistono numerosi valori sull’asse mercato libero/non- mercato (dal mercato perfettamente concorrenziale al monopolio legale), sull’asse di democrazia economica (dalla presenza di un solo rappresentante dei lavoratori nel consiglio di amministrazione all’autogestione completa) come sull’asse del proprietario di riferimento. Ad esempio, una società per azioni di proprietà al 100 % di un’autorità pubblica e dotata di organismi di cogestione si collocherebbe tra il modello 8 e il 2.

7) Il riferimento principale è il cosiddetto “modello tedesco” della Mitbestimmung, dove i rappresentanti dei lavoratori sono compongono un terzo del consiglio di sorveglianza delle imprese tra i 500 e i 2000 dipendenti e la metà dell’organo analogo nelle imprese con più di 2000 dipendenti https://www.worker- participation.eu/National-Industrial-Relations/Countries/Germany

8) Una cooperativa in regime di monopolio parrebbe un caso puramente teorico. A livello micro sono stati però registrati casi di cooperative operanti in regime di monopolio locale “se non dal punto di vista economico- operativo almeno da quello culturale”, come le cooperative di comunità: “in molti territori periferici […] si verifica che l’intera comunità partecipa alla cooperativa ed è quindi socia. Esistono così, ad esempio, cooperative di credito in cui tutti o quasi gli abitanti del territorio sono soci e non solo clienti della banca; cooperative di consumo nelle quali ogni cliente ha anche deciso di sottoscrivere la quota di adesione come socio. Talvolta per convenienza economica; talvolta più per condivisione valoriale e comprensione del ruolo che la cooperativa ha per il proprio territorio.” (Depedri-Turri 2015: 68). Le cooperative di consumo in Trentino hanno caratteristiche simili (ibid.).

9)Il partito ha avviato alcuni mesi fa una consultazione tra iscritti e simpatizzanti, rintracciabile all’indirizzo https://www.policyforum.labour.org.uk/commissions/economy/democratic-public-ownership .

Bibliografia

  • Barbera F. et al. (2016), Il capitale quotidiano. Un manifesto per l’economia fondamentale, Carocci,
  • Consultazione Partito Laburista britannico https://www.policyforum.labour.org.uk/commissions/economy/democratic-public-ownership
  • Cumbers A. (2012), Reclaiming public ownership: Making space for economic democracy, Zed Books, Londra.
  • Cumbers A. (2017), Renewing public ownership: Constructing a Democratic Economy in the Twenty-First Century, Policy Paper, CLASS, Londra. Online all’indirizzo http://classonline.org.uk/docs/Andrew_Cumbers_Public_Ownership_Finall.pdf
  • Depedri S. e Turri S. (2015), Dalla funzione sociale alla cooperativa di comunità: un caso studio per discutere sul flebile confine, in Rivista Impresa Sociale, numero 5 / 09-2015, 65-82.
  • Devine P. (1988), Democracy and economic planning: the political economy of a self-governing society, Westview Press,
  • Disegno di legge n. 52, Daga et al., 23/03/2018, “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque”.
  • Dorato L. (2017), Le privatizzazioni in Italia: analisi del processo di mercificazione dell’economia pubblica, in CESTES Proteo Annali, Che ne è stato dello Stato, Anno XXI, Numero 6/2017, pp. 139-161, Edizioni Efesto, Roma.
  • Giannini M. S. (1995), Diritto pubblico dell’economia, Il Mulino,
  • Hahnel, R. e Olin Wright E. (2016), Alternatives to capitalism: proposals for a democratic economy, Verso Books,
  • Hannah T. M. (2018), Our common wealth. The return of public ownership in the United States, Manchester University Press.,
  • Macpherson C. B. (1990), Ascesa e caduta della giustizia economica, Edizioni Lavoro,
  • Manifesto for the Foundational Economy, CRESC Working Paper no. 131, November 2013, all’indirizzo https://foundationaleconomycom.files.wordpress.com/2017/01/wp131.pdf .
  • Marotta S. (2019), L’economia fondamentale come possibile alternativa al pensiero mainstream, su Economiaepolitica.it (https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/economia-fondamentale/).
  • Mazzucato M. (2013), Lo stato innovatore, Laterza, Roma-Bari.
  • Megginson W. L. e Netter J. M. (2001), From state to market: A survey of empirical studies on privatization, Journal of economic literature, 2001, 39.2: 321-389.

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