Capitale Globale, Sovranità economica e gli insegnamenti di Keynes

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In quest’articolo sostengo che gli attuali modelli macroeconomici (sia ortodossi, sia eterodossi), incentrati su agenti o agenzie locali, non riconoscono il ruolo che gli “investitori globali” svolgono nel determinare lo spazio per politiche macroeconomiche efficaci. Sostengo pertanto che tali importanti attori debbano essere posti al centro dell’analisi macroeconomica se si intende comprendere come funzionano realmente le politiche macroeconomiche nel contesto finanziario globale. L’articolo descrive le caratteristiche chiave degli investitori globali, analizza il loro potere di determinare il valore al quale le passività del settore pubblico (moneta e debito) vengono scambiate sui mercati internazionali e come questo potere influisce sull’efficacia delle politiche. Di conseguenza, nessun paese è veramente sovrano in un mondo globalizzato e il governo di ogni paese è soggetto a un vincolo intertemporale di bilancio (VIB), sebbene, ovviamente, non tutti i paesi siano uguali e non tutti i VIB siano ugualmente vincolanti: i VIB sono elastici ed endogeni alle decisioni degli investitori globali, ma in ogni caso ineluttabili. Concludo l’articolo sostenendo che le scelte di policy dei paesi nell’odierno contesto finanziario globalizzato trarrebbero vantaggio dalla rivisitazione di alcuni degli insegnamenti di John Maynard Keynes, alla luce della sua profonda conoscenza dei mercati finanziari globali e del modo in cui questi influenzano le economie dei paesi.

Introduzione[1]

In un recente commento sul tema della globalizzazione, Razin (2021) conclude osservando che la situazione dell’economia mondiale è tale che un’efficace stabilizzazione delle economie nazionali può essere assicurata soltanto dall’uso di adeguate politiche fiscali. Condividendo le conclusioni di Bartsch et al. (2020), aggiungerei al riguardo che una stabilizzazione efficace richiede anche lo sfruttamento delle complementarità tra strumenti monetari e fiscali, a condizione che la credibilità degli impegni verso obiettivi desiderabili a lungo termine (vale a dire una crescita sana in condizioni di stabilità dei prezzi e sostenibilità del debito pubblico) sia preservata e sostenuta da un quadro istituzionale resiliente – una posizione che io stesso avevo difeso in precedenza (Bossone, 2015).

Tuttavia, come discuterò in seguito, le forze della globalizzazione richiedono a ciascun paese di considerare quanto realmente efficaci possano essere le proprie politiche macro, tenuto conto delle caratteristiche e delle circostanze che contraddistinguono le singole economie. La scelta delle politiche di ciascun paese nell’odierno contesto finanziario globale suggerisce di rivisitare alcuni degli insegnamenti lasciatici da John Maynard Keynes (JMK), in particolare in considerazione della sua profonda conoscenza dei mercati finanziari globali e di come i mercati influenzano le economie dei paesi.

Globalizzazione Finanziaria e Modellistica Macroeconomica

Nei miei lavori sulla Portfolio Theory of Inflation (PTI), ho analizzato come la globalizzazione finanziaria influisca sullo spazio di policy disponibile per le economie nazionali,[2] in molti casi condizionando tale spazio e sino a rendere inefficaci o addirittura destabilizzanti le politiche macroeconomiche espansive (Bossone 2019; 2020a, b)[3].

Il problema è che i modelli oggi utilizzati per simulare l’effetto delle politiche macroeconomiche non riconoscono il potere che gli investitori globali hanno di determinare i prezzi ai quali le passività del settore pubblico (moneta e debito) vengono scambiate sui mercati e non considerano come tale potere influisca sull’efficacia delle politiche. Questo è vero tanto per la modellistica convenzionale ortodossa (mainstream), in cui gli attori chiave (famiglie, imprese e istituzioni) sono rappresentanti da agenti locali che operano scelte allocative ottimali a valere su una data base di opzioni possibili, ed è altrettanto vero per gli approcci eterodossi – si prenda come esempio estremo la Modern Money Theory (MMT) – nei quali i governi possono emettere tutta la moneta necessaria per finanziare spesa pubblica a sostegno della piena occupazione, contando sul fatto che vi sarà sempre una domanda sufficiente per tutta la moneta emessa. In entrambi i casi, si ritiene che gli agenti locali siano sovrani e in grado di adottare le scelte ottimali[4].

In realtà, questi agenti locali (almeno molti di loro) non sono affatto sovrani quando agiscono nel contesto di economie finanziariamente globalizzate, e in particolare dove la ricchezza è fortemente concentrata e i patrimoni sono gestiti da operatori che, come si dirà, operano con (e da) una prospettiva globale – e che per questo chiamerò “investitori globali” – i quali detengono quote significative di tali passività e le gestiscono per proprio conto o/o per conto della propria clientela. In tale contesto, il valore delle passività del settore pubblico (in valuta nazionale ed estera) è determinato al margine dalle aspettative e dal trading degli investitori globali, e il potere degli investitori globali di determinare il valore delle passività del settore pubblico a sua volta influenza le attività del settore privato non finanziario. Questi attori, sostengo, devono essere posti al centro dell’analisi macroeconomica se si vuol comprendere come il contesto finanziario globale vincoli le politiche macroeconomiche e ne condizioni l’impatto sull’economia reale. Ciò è diventato ancor più evidente con l’accresciuta importanza del mercato obbligazionario quale fonte di finanziamento esterno per molti paesi e con il recente aumento delle emissioni di debito pubblico a seguito dei bassi tassi di interesse.

Gli Investitori Globali: Perché Sono Speciali?

A differenza degli agenti rappresentativi locali convenzionalmente considerati, gli investitori globali esercitano un ben maggior potere di mercato e d’influenza sul prezzo dei titoli e della moneta emessi dai paesi, operando come investitori “marginali”[5]. Gli investitori globali non sono necessariamente soggetti esteri rispetto al paese dove operano. Possono essere residenti del paese, filiali locali di entità estere, o soggetti esteri che operano nel paese tramite corrispondenti o intermediari locali. Ciò che conta è che essi sono influenti e assumono decisioni di investimento sulla base di una prospettiva globale che trascende interessi e preferenze locali. Gli investitori globali mobilizzano risorse assai più ingenti ed elaborano informazioni ben maggiori rispetto agli agenti (tipicamente più piccoli) che operano a livello locale. Negoziano e scambiano a costi di gran lunga inferiori e, cosa rilevante, sono liberi da “home bias” e, anche quando risiedono in un paese o operano da esso, difficilmente usano più di una modesta frazione della loro ricchezza gestita (se non del tutto) per finanziare consumo. Non mirano a ottimizzare il livello dei consumi nel tempo; mirano a massimizzare l’utilità derivante dalla ricchezza finanziaria gestendo la ricchezza finanziaria. Gli investitori globali non sono interessati alla stabilità dei paesi in cui investono (né tantomeno a sopportare costi legati ad eventuali programmi e misure di stabilizzazione), se non in quanto sia necessaria per proteggere il valore del loro investimento, e, a differenza degli agenti locali, non partecipano ai costi di stabilizzazione dell’economia, ove necessaria, mentre sono pronti a precipitarsi verso l’uscita dagli investimenti in paesi a rischio di stabilità, trasferendo altrove i propri capitali o i capitali gestiti. Costituiscono, se si vuole, la quintessenza della figura del capitalista caratterizzata da Karl Marx: laddove costui trasformava la moneta in merce per ottenere più moneta attraverso il ciclo M-C-M (Money-Commodity-Money), gli investitori globali trasformano il denaro in denaro per ottenere più denaro attraverso quello che potrebbe essere chiamato il ciclo M-M-M (Money-Money-Money), oppure, parafrasando Sraffa, producono moneta a mezzo di moneta – operando su scala planetaria, trascendendo i confini nazionali.

Gli investitori globali non sono interessati all’evoluzione dell’inflazione dei prezzi interni o della disoccupazione in un paese, se non per trarre indicazioni sulla credibilità e stabilità del quadro di policy del paese, e utilizzano indici di prezzo internazionali o di panieri di valute come deflatori per calcolare il valore reale delle variabili finanziarie per loro rilevanti e come benchmark per stimare l’esposizione al rischio di cambio degli investimenti locali. Assai più dei soggetti locali essi sono sensibili a tale rischio e richiedono premi maggiori sulle passività di un paese a fronte di emissioni che ritengono possano pregiudicarne la stabilità del valore esterno. Inoltre, assai più rapidamente possono sostituire tali passività con altre (soprattutto estere), a costi di transazione inferiori e su scala ben più grande. E, allorché gli agenti locali che operano in mercati chiusi o captive accettano e detengono emissioni di passività pubbliche a condizioni convenienti per il governo emittente, su mercati aperti e integrati gli investitori globali, più sensibili ai rischi, determinano prezzi a condizioni meno favorevoli per i governi emittenti, potendo anche esercitare sulle condizioni di emissione una minaccia di “uscita” assai più forte ed efficace.

È vero, gli agenti locali domandano sempre valuta nazionale per operare transazioni interne e per regolare il pagamento delle tasse, ma la loro domanda può non essere sufficiente per impedirne il deprezzamento, ove il valore della valuta è determinato al margine dagli investitori globali e (in assenza di segmentazione dei mercati) dalla loro attività di trading su tutti gli strumenti denominati in quella valuta (Box 1). Sono gli investitori globali che, in ultima analisi, stabiliscono il prezzo e la quantità (nominale e reale) di moneta disponibile per i locali.

Box 1. Finanza Globale e Valore del Denaro Sovente i sostenitori della sovranità monetaria (si veda al riguardo la sezione seguente) opinano che esiste sempre una domanda di valuta o moneta nazionale giacché c’è sempre in ogni paese chi la userà per regolare le transazioni interne e per pagare le tasse. Ciò sui cui occorre interrogarsi, tuttavia, è: cosa assicura che questa domanda risulti sufficiente a garantirne la stabilità del valore esterno e interno e, soprattutto, quanto è rilevante il ruolo di questa domanda per la determinazione del valore interno ed esterno della moneta di un’economia fortemente integrata nella finanza globale?  Le risposte sono, rispettivamente: niente e poco. Sostenere il contrario tradisce la non considerazione della preponderante importanza degli stock finanziari rispetto ai flussi reali nelle scelte allocative del capitale (soprattutto nelle odierne economie altamente finanziarizzate); la mancata comprensione di chi oggi detiene il controllo dei processi allocativi del capitale, e di come lo esercita, soprattutto in economie con altissima concentrazione della ricchezza; e infine la riluttanza ad accettare che non vi sono fondamentali economici certi ai quali risulta ancorabile il valore di una valuta, sia pure nel lungo termine. Questi tre aspetti, discussi brevemente di seguito, sono peraltro fra loro connessi. Stock vs. flussi Gli stock delle attività in essere nelle economie di oggi, soprattutto quelle sviluppate ed emergenti, e negoziate attraverso i moderni sistemi finanziari costituiscono un multiplo di svariati ordini di grandezza superiore alla dimensione dei flussi di prodotto, consumo, investimento, e scambi commerciali con l’estero generati dalle economie reali nazionali. Sono la domanda e l’offerta degli stock, piuttosto che i flussi di risparmio e investimento, a determinare i prezzi delle attività finanziarie denominati in varie valute e delle stesse valute scambiate. La domanda e l’offerta di stock, e i prezzi cui danno luogo, sono basate su considerazioni di rischio e su preferenze per la liquidità relative ai diversi tipi di stock, formulate da chi opera sui mercati. Le dinamiche allocative che ne discendono, guidate da aspettative a loro volta ostruite su fattori soggettivi e convenzionali (come la teoria della preferenza per la liquidità (LPT) di JMK ben illustra)[6], prevalgono sugli effetti dei soli flussi di investimento e risparmio mossi, secondo la dottrina (neo)classica, da fattori reali quali la produttività del capitale e la parsimonia degli individui. Finanza Dei soggetti che utilizzano la moneta in ogni economia, moltissimi (relativamente alla dimensione di ciascuna economia) la utilizzano per motivi transattivi e fiscali e per accumulare piccoli risparmi, ma si tratta di soggetti appunto “piccoli”, che non ne gestiscono lo stock attivamente. In larga parte, questa moneta, una volta spesa, affluisce a pochi grandi soggetti titolari di profitti, rendite e alte o altissime retribuzioni, che ne destinano una piccola quota in consumi interni, ne trattengono una quota minore per scopi transattivi, precauzionali e speculativi, e ne diversificano la maggior parte in attività (liquide e illiquide, interne ed estere) alternative. Una quota minore della ricchezza accumulata viene (re)investita in capitale produttivo locale, mentre la più larga quota viene detenuta in forma di strumenti finanziari e gestita con l’obiettivo di proteggerne il valore e accrescerlo nel tempo. Maggiore è il grado di sfiducia nei confronti del paese di residenza dei soggetti in parola, maggiori sono i trasferimenti di ricchezza effettuati su attività in valuta estera e verso paesi esteri. Sono questi pochi grandi soggetti, che operando da investitori “marginali”, direttamente e/o indirettamente determinano quanta moneta resta nel paese di origine e quanto essa vale rispetto ad altre attività e valute, oltretutto a fronte di una certa rigidità della domanda di moneta da parte dei soggetti “piccoli”. Per i soggetti “grandi”, i rischi di perdita sul valore della ricchezza finanziaria da essi detenuta trascendono l’inflazione interna (giammai la consumeranno localmente, se non in minima parte) e afferiscono invece alla volatilità dei prezzi finanziari, tradotti in una valuta di riferimento, e al rischio di default degli enti emittenti loro debitori.  Fondamentali Men che mai, poi, i detentori di ricchezza (o i gestori cui essi si affidano) valutano i cosiddetti “fondamentali” dell’economia come fattori decisivi per la scelta degli investimenti in attività interne vs. estere (si veda anche il Box 2). Oltretutto, quand’anche li considerino per identificare tendenze di lungo termine, la letteratura non fornisce loro riferimenti utili sul piano empirico. A parte il numero ampio e indefinito di variabili considerate come “fondamentali” (si veda, per esempio, IMF (2019)), gli stessi approcci teorici ed empirici sono molteplici, ciascuno basato su scelte di fondamentali alternative e tutte giustificabili (si veda, per esempio, Ca’ Zorzi et al. (2020)). Inoltre, per rimanere agli esercizi di stima più recenti (eseguiti dagli autori appena citati), sebbene il tradizionale approccio basato sulla parità dei poteri d’acquisto faccia rilevare il maggior potere predittivo rispetto agli altri approcci testati, tale potere è tutt’altro che efficace in termini assoluti. E se ciò vale per le valute più importanti (per gli scambi delle quali sussiste abbondanza di osservazioni), vale a maggior ragione per le valute di minore importanza.

È importante sottolineare che, come notato, con mercati finanziari internazionali integrati, gli investitori globali possono spostare capitali finanziari tra mercati e paesi in tempo reale e a costi di transazione trascurabili.

In condizioni di elevata incertezza, il prezzo delle passività considerate come meno sicure di altre diminuisce e viceversa. E se la credibilità di un paese è reputata debole o in via di indebolimento dagli investitori globali (a torto o a ragione), la crescita delle passività del settore pubblico del paese ne causa la perdita di valore, indipendentemente dalla valuta in cui sono denominate.

Nominalismo Sovrano e Sovranità Nominale

C’è chi ritiene che i governi dovrebbero denominare il debito pubblico nella propria valuta nazionale, così da poterne stampare quanta ne occorre per fugare il rischio d’inadempienza, e che dovrebbero emettere tutto il debito che occorre per stabilizzare l’economia al livello di piena occupazione. Altri ritengono addirittura che i governi con sovranità monetaria possano e debbano mantenere l’economia in piena occupazione monetizzando permanentemente i propri deficit, ove questi fossero cronici, a condizione che i tassi di cambio siano flessibili.[7]

I sostenitori di queste forme di ‘nominalismo sovrano’, in base al quale i governi sfruttano la propria autonomia per determinare le variabili nominali (moneta e debito), pensano alle grandezze macroeconomiche in termini di identità e considerano che i surplus di un settore sono sempre bilanciati dai deficit di altri, perciò concludendo che deve sempre esistere una domanda che corrisponda agli stock di denaro o debito che si accumulano nell’economia a seguito delle decisioni di spesa assunte dal governo.

Dimenticano, purtroppo, che l’economia è fatta di equazioni, non di identità: sui mercati, domanda e offerta possono coincidere solo se si stabilisce un prezzo che sia accettabile per chi esprime una domanda verso una data offerta. Quindi, sì, certo, i governi possono emettere tutto il denaro o il debito che vogliono, ma solo a prezzi ai quali gli altri settori dell’economia sono disposti a detenere gli stock di denaro o debito che nel tempo si accumulano per effetto dei successivi di flussi di offerta netta. E ciò è ancor più vero in economie di mercato aperte e finanziariamente integrate. Stock indefinitamente in crescita richiedono prezzi in calo (a parità di altre condizioni), se la domanda non cresce corrispondentemente, e ci sono casi in cui i prezzi di equilibrio possono non formarsi affatto. I prezzi dei titoli monetari e finanziari riflettono le aspettative dell’evoluzione futura dei rispettivi flussi di offerta netta, e un grado di incertezza sottende sempre queste aspettative. Con elevata incertezza, i prezzi delle passività considerate meno sicure di altre diminuiscono e viceversa. E se la credibilità di un paese è considerata debole dagli investitori (a torto o a ragione), o in via di indebolimento, l’espansione delle passività del settore pubblico del paese fa perdere loro valore, indipendentemente dalla valuta di denominazione (Box 2). Di seguito, esamino separatamente il caso del debito pubblico e quello del denaro.

Box 2. Investitori Globali e Tassi di Cambio È d’uopo chiarire quale teoria del tasso di cambio sottostia alla modellistica macroeconomica incentrata sul ruolo degli investitori globali, auspicata in quest’articolo. Ciò anche per superare l’argomento tipicamente post-Keynesiano secondo cui, sino a quando l’economia si trova in una situazione di sottoccupazione delle risorse, le politiche macroeconomiche espansive sono sempre efficaci nello stimolare l’output (e, dunque, l’impiego delle risorse) e causerebbero tensione sui prezzi, e di qui sul cambio, solo man mano che l’output si avvicina fino a eccedere il livello di piena occupazione[8]. A medio termine, secondo questa visione, le politiche macroeconomiche (fiscale, monetaria e del cambio) possono essere efficacemente utilizzate per condurre l’economia all’equilibrio interno ed esterno e il tasso di cambio nominale può essere usato per proteggere l’economia da eventuali perdite di competitività derivanti da un’inflazione mediamente più elevata che nelle economie concorrenti. La teoria a sostegno di questa visione è quella di un tasso cambio che si aggiusta in previsione del tasso d’inflazione atteso relativo a quello delle economie concorrenti sui mercati commerciali. Diversamente, secondo la Portfolio Theory of Inflation (PTI) sviluppata nei lavori precedentemente citati, il ruolo degli investitori globali genera altri meccanismi di trasmissione. Qui, il valore esterno della valuta di un paese (il tasso di cambio) non dipende dalle previsioni di andamento del tasso d’ inflazione relativa del paese. Né l’inflazione dei paesi è presa a riferimento da investitori che consumano poco o nulla in questi paesi degli stock di ricchezza da essi posseduti o gestiti. Essi considerano invece i rischi legati alle variazioni del valore delle valute dei paesi dove investono rispetto a una valuta di riferimento, che raramente riflettono i differenziali d’inflazione (effettiva o attesa), certamente non nel breve e medio termine, i quali pertanto non costituiscono indicatori utili per la gestione del rischio di cambio o per misurare la performance di investimenti denominati in valute diverse da parte di operatori globali (investitori e gestori di capitali) miranti a proteggerne e aumentarne il valore (si veda il Box 1). Il valore esterno della valuta si determina, dunque, come il prezzo di un’attività finanziaria, e critici per la sua determinazione sono: il quadro complessivo di policy del paese emittente, il grado di credibilità che sottende tale quadro, e il giudizio che, su questa base, gli investitori danno circa la stabilità del valore esterno della valuta stessa. Come ben spiega la LPT, e come la realtà conferma, il prezzo di una valuta (al pari del prezzo di ogni attività finanziaria) riflette aspettative riflessive, alimentate da “convenzioni” (conventional beliefs) condivise dagli investitori, che pere questo tendono ad autorealizzarsi: se gli investitori si aspettano una valuta stabile, la valuta è stabile; e viceversa[9]. Come sosteneva JMK a proposito della relazione fra efficienza marginale del capitale e tasso d’interesse, sono i fattori reali ad adeguarsi ai fattori convenzionali (questi ultimi determinati dai soggetti dominanti i mercati) e non il contrario (Keynes, 1973). Pertanto, se il giudizio degli investitori converge sul rischio che lo stock delle passività denominate in valuta nazionale cresca troppo rapidamente e in eccesso rispetto alle possibilità di assorbimento nei portafogli finanziari, il tasso di cambio si deprezza[10]. È il mercato dei cambi a reagire per primo ed è, quindi, il tasso di cambio a variare per primo, seguito dall’aggiustamento dei prezzi interni attraverso i meccanismi di pass-through propri del paese in questione peraltro anch’essi sensibili alla credibilità che gli investitori attribuiscono al paese[11]. La credibilità di un paese, pertanto, così come percepita dai mercati, diventa essa stessa un “fondamentale” alla base della determinazione del tasso di cambio. A seconda della (s)fiducia con cui gli investitori reagiscono agli annunci o alle notizie di nuove policy, gli esiti possono variare da positivi a negativi (o molto negativi), in questi casi generando un’ampia gamma di possibili conseguenze (da moderate svalutazioni a mancati rinnovi di investimenti o disinvestimenti e, nei casi più estremi, crisi valutarie e finanziarie, e fenomeni di sudden stops e capital account reversals, con fuoriuscite di capitalie cadute dell’output). A ciò devono contro-reagire le autorità di policy, o accettando la svalutazione (e le relative conseguenze) oppure contrastandola alzando i tassi d’interesse e/o assumendo misure ancora più radicali (e.g., misure fiscali e controlli sui cambi e sui capitali) in tal modo neutralizzando in tutto o in parte l’efficacia delle policy inizialmente adottate. Appare evidente che il giudizio degli investitori globali (giusto o errato che sia) e i criteri di credibilità da essi applicati svolgono un ruolo determinante (e impossibile da ignorare) tanto in punto di teoria economica quanto nell’ambito delle politiche economiche da adottare in economie aperte e fortemente integrate nella finanza globale. Di qui l’esigenza di costruire modelli che ne rappresentino la centralità nel processo di allocazione delle risorse fra paesi e l’influenza sui tassi di cambio.       

Debito Pubblico

Sebbene i contratti di debito siano stipulati in termini nominali, essi rappresentano diritti su risorse reali, e chi li acquista è interessato a recuperare l’intero valore reale del denaro concesso (comprensivo di eventuali interessi). Nel caso degli investitori globali, i contratti espressi in valuta domestica dovrebbero almeno prevedere rendimenti (al netto del rischio) pari a quelli ottenibili su analoghi contratti espressi in valute di riserva, che, rappresentando claim sulle risorse reali mondiali, fungono da benchmark. Rimborsi in valute che si deprezzano rispetto ai benchmark, e il cui deprezzamento non è compensato da margini di rendimento adeguati, non generano inadempienza de iure, ma lo fanno de facto e pertanto costituiscono una forma di default sul piano strettamente economico-finanziario.

Se così non fosse, un governo potrebbe sempre scroccare un “pranzo gratuito” prendendo a prestito fondi in valuta nazionale che esso può (in linea di principio) stampare in quantità illimitate. In effetti, un governo può far ciò quando i mutuatari sono agenti piccoli e ininfluenti, scarsamente informati e con capacità limitate di gestione degli investimenti, o che operano su mercati dei capitali segmentati o chiusi, oppure sotto vincoli derivanti da limitate opportunità d’investimento alternative. D’altra parte, il pranzo gratis non è ottenibile laddove l’economia è integrata nella finanza globale e se le sue passività si scambiano sui mercati finanziari internazionali; qui, gli investitori globali valutano la capacità dei mutuatari di rimborsare il debito in valore reale e determinano per le passività prezzi che riflettono tale capacità.

Per affrancarsi da ciò, un governo potrebbe contemplare l’opzione di ricorrere all’emissione di passività in valuta nazionale da destinare esclusivamente (o almeno prevalentemente) a soggetti locali che, come detto, sono meno esigenti rispetto agli investitori globali e tendenzialmente meno attivi nella gestione dei portafogli – come, d’altronde, ciò accadeva prima della “globalizzazione” finanziaria. Ma, a parte che i mercati interni il più delle volte non hanno capacità di assorbimento adeguate alle esigenze di finanziamento dei governi, pure in presenza di un’adeguata capacità, il ricorso alla richiamata opzione richiederebbe di operare una segmentazione dei mercati che equivarrebbe a una messa in discussione della scelta stessa d’integrazione finanziaria perseguita – un’opzione perfettamente legittima, ma i cui costi e benefici andrebbero valutati con attenzione, e che non è nemmeno detto che i soggetti locali gradirebbero e asseconderebbero.

Né d’altra parte, come si dirà tra breve, sarebbe percorribile l’altra opzione, che taluni paventano, di ricorrere all’emissione di moneta in luogo di debito, con l’unica precauzione di far ciò solo se e sino a quando le risorse non fossero pienamente occupate, così da evitare effetti inflazionistici. (Il che ancora tradisce una visione meccanicistica secondo cui la soglia occupazionale non inflazionistica è identificabile con certezza e, quando ci si avvicina a essa o la si supera, è sempre possibile invertire la rotta di policy con immediatezza e precisione). Si dimostra, invero, che, con mercati finanziari integrati e il richiamato ruolo centrale degli investitori globali, la dinamica dello stock di moneta farebbe sì che il semplice annuncio di tale policy si risolverebbe in deprezzamento valutario e conseguente inflazione, pure in presenza di risorse sottoccupate.

Moneta

Il fatto che i governi possano in linea di principio stampare infinite quantità di moneta nazionale non altera – ex ante – le perdite (in termini reali) che gli investitori si aspettano da contratti che differiscono solo per la valuta di denominazione: i termini contrattuali sono scritti in modo che gli investitori siano indifferenti tra diverse valute. Cioè, i contratti recano termini e condizioni che proteggono gli investitori dal rischio d’insolvenza, sia che questo derivi dall’interruzione del servizio del debito sia che derivi dal rimborso del debito in una valuta che si deprezza. Il debitore è il medesimo soggetto in entrambi i casi, così come la sua capacità di rimborsare il debito (in valore reale) è la medesima; pertanto, lo stesso è il rischio cui sono esposti gli investitori. Inoltre, quanto minore è la credibilità del governo emittente, tanto maggiore è il rischio di deprezzamento della valuta e, dunque, maggiore è anche il premio sugli interessi richiesto dagli investitori per essere indotti ad acquistare e detenere passività espresse in quella valuta.

La storia non cambierebbe (anzi) se il governo ricorresse al finanziamento monetario permanente dei deficit di bilancio (come, per esempio, raccomanda la MMT). In un’economia integrata nella finanza globale, per di più se caratterizzata da un’alta concentrazione della ricchezza e da una intensa gestione professionale di tale ricchezza sui mercati finanziari internazionali, la moneta immessa nell’economia attraverso la spesa pubblica – che, una volta che circola, affluisce ai detentori di ricchezza, alle imprese e agli intermediari – si sposta prima o poi verso altre attività alternative, ivi inclusi investimenti in attività estere. Ciò avviene in condizioni di crescita normale degli stock, allorché i portafogli vengono continuamente diversificati, ma avviene a maggior ragione (e in misura maggiore) quando i detentori di patrimoni e i gestori dei patrimoni temono una crescita disordinata dello stock di moneta (come rappresentato nel Box 2) e il paese emittente gode di debole o scarsa credibilità.

In conclusione, nessuna economia nazionale è pienamente sovrana in un mondo globalizzato e ogni governo nazionale è soggetto a un vincolo intertemporale di bilancio (VIB), sebbene, ovviamente, non tutte le economie nazionali siano uguali e non tutti i VIB siano ugualmente vincolanti (si veda oltre). In molti paesi, il “nominalismo sovrano” culmina in quella che chiamo “sovranità nominale”, una situazione, cioè, nella quale la sovranità economica è più un nome (se non persino un’illusione) che una realtà.

Il Vincolo Intertemporale di Bilancio: Flessibile, Endogeno, ma Ineluttabile

Sotto il VIB, un governo deve impegnarsi nel tempo a generare risorse reali sufficienti per adempiere ai propri obblighi finanziari futuri nei confronti degli investitori che del suo debito sono detentori. Dal punto di vista dell’investitore, un governo che emette debito deve essere considerato in grado di restituire nel tempo l’intero valore reale del debito (e degli interessi che su esso maturano). Il VIB deve valere identicamente sulle passività pubbliche indipendentemente dalla valuta di denominazione, poiché altrimenti gli investitori arbitraggiano a scapito delle passività che non mantengono il valore rispetto ai rispettivi benchmark e a vantaggio di altre (verosimilmente estere) che invece rispettano o superano i benchmark.

Per quanto riguarda l’obiezione che un governo che gode di sovranità monetaria non sia mai soggetto a un VIB, giacché può sempre stampare la moneta di cui ha bisogno per onorare i propri obblighi futuri, va notato che gli investitori prendono a riferimento il grado di credibilità che essi attribuiscono al paese emittente: se prevedono una condotta fiscale e/o monetaria indisciplinata, essi operano deprezzando il valore della valuta nazionale e influenzano i mercati fino a un punto in cui la domanda di valuta (in valore nominale e reale), e le attività denominate in quella valuta, si riducono, in tal modo condizionando il VIB cui il governo è soggetto. In economie integrate nella finanza globale, e caratterizzate da credibilità debole, accade che la moneta emessa non sia assorbibile a un tasso di cambio invariato. Se una svalutazione può, entro certi limiti, aiutare a migliorare il saldo dell’export e quindi a sostenere l’output, la debolezza strutturale della valuta nazionale determinata da un quadro di policy ritenuto non credibile si traduce, in un’economia aperta, in crescita dei prezzi e riduzione del potere d’acquisto interno, a detrimento dell’output.  

Ogni governo, sebbene emetta la propria moneta, si trova soggetto a un VIB la cui elasticità è endogena rispetto alle decisioni degli investitori globali. Un governo che si reputa in grado di soddisfare il proprio VIB sarebbe percepito come credibile dai mercati, e viceversa. Pertanto, più è forte la sua credibilità, più alta è l’elasticità del suo VIB e maggiore è la disponibilità del mercato ad assorbire quantità più grandi delle sue passività a un dato prezzo. D’altro canto, con una credibilità più debole, le prospettive che il governo raccolga risorse sufficienti per ripagare i propri obblighi futuri sarebbero percepite come più incerte e il conseguente restringimento del VIB farebbe scendere il prezzo delle sue passività.

Prendendo JMK sul Serio

Sebbene possa apparire paradossale, è la politica sorprendentemente prudente di JMK – quella meno nota – che sarebbe oggi di grande rilievo per aiutare i paesi a ridurre il rischio di perdita di sovranità a favore dei mercati globali. (Naturalmente, dando qui per data la globalizzazione finanziaria, e quindi col solo intendimento di definire politiche macroeconomiche nazionali adatte a un mondo globalizzato, si tralascia di proposito l’avviso di JMK contrario alla libertà dei movimenti di capitale, che per definizione è in radicale antitesi con la prima.) In realtà, proprio la conoscenza che JMK aveva acquisito del funzionamento dei mercati finanziari internazionali lo aveva portato a proporre un’agenda fiscale piuttosto conservatrice come base per le politiche di stabilizzazione economica, a differenza di quanto la volgarizzazione del suo pensiero ha erroneamente portato molti a ritenere.

Essendo «revolutionary in thought and very cautious in policy»[12], e nonostante la radicale innovatività della sua Teoria Generale, JMK mai sostenne la creazione di disavanzi pubblici cronici e affermava che la spesa pubblica deve generare nel tempo benefici effettivi (Brown-Collier e Collier, 1995; Dwyer, 2011).

JMK propose la definizione di un “bilancio ordinario” e di un “bilancio di conto capitale”, prevedendo una separazione che riflette quella fra consumi e investimenti pubblici. Il bilancio ordinario riporta le spese correnti e le entrate e registra gli ammortamenti del debito pubblico. Il bilancio di conto capitale riporta le spese per investimenti[13]. La distinzione tra le due definizioni di bilancio permette di distinguere, a sua volta, due tipi di politica fiscale: gli interventi fiscali in deficit e gli interventi per investimenti. I primi sono un mezzo per curare gli squilibri di natura congiunturale, mentre i secondi sono un modo per mantenere l’equilibrio di piena occupazione.

JMK si opponeva all’utilizzo del bilancio ordinario per stabilizzare il ciclo, nonché al finanziamento di lavori pubblici e all’uso della tassazione per incidere sul livello dei consumi. Piuttosto sosteneva che, in condizioni normali, il budget ordinario deve registrare surplus che, di volta in volta, vanno trasferiti al bilancio di conto capitale per espandere investimenti che generano un ritorno. Egli ammetteva il ricorso all’indebitamento, ma per sostenere investimenti che generano ritorni finanziari o economici che consentono di ripagare il debito iniziale.

JMK considerava con preoccupazione l’accumulo di debito pubblico emesso per finanziare spesa corrente (quello che lui chiamava “dead-weight debt”) e riteneva che il bilancio ordinario non debba essere in deficit, mentre la spesa per investimenti deve essere in parte finanziata da debito e per il resto da tasse. Ciò, ancora una volta, implicava che non debba esserci emissione di debito per sostenere le spese ricorrenti.

Mai JMK sostenne che la spesa corrente o per investimenti deve essere incondizionatamente finanziata in deficit[14], mentre un’attenta lettura del suo contributo mostra che egli fosse generalmente contrario all’attivismo fiscale di breve periodo. Per JMK, il ricorso alla spesa pubblica finanziata con debito durante una recessione era un rimedio di “second best”, al quale ricorrere temporaneamente soltanto se il bilancio di conto capitale si rivela insufficiente a mantenere la piena occupazione.

La sua visione di fondo era, invece, a favore di un allargamento permanente del settore pubblico, volto a sostenere il livello dell’output e a prevenirne le fluttuazioni. Una spesa pubblica elevata e stabile assicura la piena occupazione, consentendo al tempo stesso al bilancio ordinario di rimanere in pareggio o in surplus. In tal modo, l’economia previene la formazione di andamenti ciclici del prodotto attraverso un’elevata socializzazione degli investimenti che preserva anche l’equilibrio fiscale.

La ricetta prudente di JMK risulterebbe oggi valida per le economie che sono integrate nell’odierno mondo finanziario globalizzato, dove pochissimi governi beneficiano dell’ampio spazio di policy che è invece disponibile per economie come gli Stati Uniti e il Giappone (e potenzialmente l’UE), e dove i governi che emettono ampie passività rischiano di cedere la propria sovranità nelle mani di investitori globali che non nutrono alcun interesse per il loro destino, se non per quanto concerne la loro capacità di onorare i debiti (qualunque ne sia il costo sociale…).

Cosa resta allora da fare a questi paesi, allorché si trovano in situazioni di recessione o crisi con forti ripercussioni economiche?

Le considerazioni prima svolte raccomandano di essere realistici riguardo alle opzioni di policy effettivamente disponibili ai governi. Ricordando il già citato lavoro di Bartsch et al. (2020), il coordinamento tra politica fiscale e monetaria può ampliare lo spazio di policy, ma solo se i mercati reputano credibile l’impegno delle autorità verso la stabilità dei prezzi e la sostenibilità del debito pubblico.

Si tratta tuttavia di un “se” ipotetico impegnativo, che lega l’ulteriore spazio di policy potenzialmente recuperabile alle condizioni specifiche di ciascun paese, tramite il coordinamento delle politiche interne: per quanto detto in precedenza, un’economia che soffre di scarsa credibilità (agli occhi dei mercati globali), per di più se fortemente indebitata, può recuperare margini di spazio di policy assai più risicati (sempre ammesso che li recuperi) rispetto a un’economia ipoteticamente identica ma caratterizzata da maggiore credibilità.

Lo stesso JMK, allorché fondava la sua LPT sul ruolo delle convenzioni di mercato, era convinto della capacità della banca centrale di orientare le convenzioni medesime, con l’intento di perseguire specifici obiettivi di policy[15]. Naturalmente, la banca centrale di cui JMK parlava era la potentissima e credibilissima Banca d’Inghilterra, in una fase in cui ancora essa era al centro dei mercati finanziari internazionali e capace certamente di influenzarne, e persino di coordinarne, le aspettative. (E nondimeno, egli ritenne essenziale che si ricorresse all’introduzione di un regime internazionale di limita mobilità dei capitali, proprio al fine di aumentare l’efficacia delle decisioni di policy nazionali). D’altra parte, JMK non considerò i vincoli che allo spazio di policy promanano da un’insufficiente credibilità delle autorità nazionali presso i mercati – il problema che è stato l’oggetto di quest’articolo.

In regime di elevata integrazione finanziaria internazionale, una soluzione superiore al problema dei vincoli allo spazio di policy richiederebbe di portare il coordinamento delle politiche al livello più alto, cioè al livello internazionale. Anche in questo caso sarebbero rilevanti gli insegnamenti di JMK a favore di un’architettura finanziaria internazionale fondata sul principio dell’aggiustamento simmetrico, in base al quale, nelle situazioni di squilibrio, i paesi che sono in grado di fornire stimoli fiscali e monetari dovrebbero impegnarsi a adottare politiche conseguenti a beneficio di quei paesi che non possono farlo e a vantaggio del livello e della stabilità dell’output mondiale (Piffaretti, 2009).

Purtroppo, la comunità internazionale non è mai stata disposta a compiere un passo di responsabilità del genere – e l’esempio dato negli anni, soprattutto durante la tragedia del COVID-19, da quella che in linea di principio dovrebbe essere una comunità coesa come l’UE, è tutt’altro che incoraggiante.

Osservazioni Conclusive

La modellizzazione macroeconomica delle odierne economie globalizzate dovrebbe riconoscere centralità al potere degli investitori globali: essi determinano l’elasticità del VIB dei governi. L’elasticità del VIB, a sua volta, influisce sull’efficacia delle politiche macroeconomiche espansive adottate dai governi medesimi.

Sotto un VIB flessibile, le politiche espansive godono di maggiore spazio e possono quindi essere più efficaci in termini di output e utilizzo delle risorse, mentre sotto un VIB più stretto gli effetti delle stesse politiche si dissipano in deprezzamento valutario e inflazione, secondo le scelte allocative effettuate dagli investitori globali. Per evitare tali conseguenze, i governi devono adeguare i tassi di interesse, in tal modo neutralizzando le politiche originariamente attuate.

In conclusione, le economie globalizzate –soprattutto quelle maggiormente indebitate in valuta estera – non trarrebbero beneficio dalla ridenominazione del debito in valuta nazionale, in termini di maggiore efficace delle politiche macroeconomiche, né beneficerebbero dell’effetto di protezione da shock esterni che normalmente si ritiene i regimi di tassi di cambio fluttuanti permetto di ottenere.

Di fronte a forti recessioni o crisi, alcuni paesi possono recuperare spazio di policy facendo in modo che la banca centrale e il tesoro coordinino i loro interventi. Tuttavia, ciò richiederebbe che l’impegno del paese verso la stabilità dei prezzi e la sostenibilità del debito pubblico, supportato da un quadro istituzionale adeguato, fosse riconosciuto dai mercati come credibile.

Infine, in tali circostanze, strumento più potente sarebbe una strategia di coordinamento delle politiche a livello internazionale basata sul principio di aggiustamento simmetrico di JMK. Purtroppo, la prospettiva che la comunità internazionale compia un simile passo non appare alla vista.

Riferimenti

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Bartholdy, J. and B. Kate (2004), ‘Testing for multiple types of marginal investor in ex-day pricing,’ Multinational Finance Journal, 8(3/4), 173–209.

Bartsch E., A. Bénassy-Quéré, G. Corsetti, and X. Debrun (2020), ‘It’s all in the mix: how can monetary and fiscal policies work or fail together?,’ Geneva Report on the World Economy, No 23, ICMB and CEPR.

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Wray, L.R. (2015), Modern Money Theory: A Primer on Macroeconomics for Sovereign Monetary Systems, 2nd edition, Palgrave Macmillan.


[1] Ringrazio Massimo Costa per i suoi commenti su una versione precedente di questo articolo e Thomas Palley per il suo incoraggiamento. Il mio debito intellettuale è nei confronti di Charles Wyplosz, per l’importanza che attribuisce, e che egli ha voluto con me condividere in occasioni di comunicazioni private, al tema della credibilità per la politica economica, tema che ha fortemente ispirato i miei recenti lavori. Come sempre, sono grato a mia moglie Ornella per il suo incessante supporto. Le opinioni espresse nel testo sono solo mie e non implicano quelle delle istituzioni con le quali sono attualmente associato.

[2] Con l’espressione “spazio di policy” mi riferisco ai margini di utilizzo di politiche macroeconomiche espansive, da parte di un paese, entro i quali tali politiche sono efficaci, nel senso di contribuire all’aumento dell’utilizzo delle risorse e della produzione interna, senza compromettere la sostenibilità delle finanze pubbliche del paese in parola e la stabilità del valore della sua moneta.   

[3] Ho perfezionato il modello PTI (e ho eliminato errori contenuti nella versione originale) in un lavoro di prossima pubblicazione (Bossone 2021a).

[4] Come riferimenti rilevanti per la MMT, si vedano Wray (2015) e Kelton (2020). Per un’analisi critica della teoria, si veda Palley (2020), e per un’analisi dell’incoerenza interna della prescrizione della politica di monetizzazione del deficit di MMT, si veda Bossone (2021b).

[5] Per uno studio sull’investitore marginale e per riferimenti alla letteratura finanziaria sull’investitore marginale, si vedano Bartholdy e Kate (2004) e, più recentemente, Chen e Lei (2015).

[6] Per eccellenti illustrazioni della teoria si vedano Bibow (2005) e Tily (2006, 2012).

[7] Si vedano le chiare esposizioni di questi argomenti in Vernengo e Pérez Caldentey (2019).

[8] Più precisamente, mentre l’efficacia della politica fiscale, a parità di ogni altra cosa, viene parzialmente indebolita dall’apprezzamento del tasso di cambio reale conseguente al rialzo dei tassi d’interesse, l’efficacia della politica monetaria viene esaltata dal deprezzamento conseguente all’abbassamento del tasso di interesse. Tuttavia, l’efficacia in assoluto di entrambe le politiche non è mai in questione.

[9] Nelle parole dello stesso JMK: «It might be more accurate, perhaps, to say that the rate of interest is a highly conventional, rather than a highly psychological, phenomenon. For its actual value is largely governed by the prevailing view as to what its value is expected to be. Any level of interest which is accepted with sufficient conviction as likely to be durable will be durable …» (Keynes, 1973, p. 203).

[10] In particolare, secondo il modello PTI, il tasso di cambio si deprezza allorché l’offerta netta di passività (moneta e debito) del paese considerato cresce più rapidamente rispetto al paese di riferimento (tipicamente un paese che emette valuta di riserva) e/o se i tassi d’interesse del primo sono più bassi che nel secondo e/o se la credibilità del paese considerato è inferiore a quella del paese di riferimenti (nella percezione dei mercati). Per un modello semplificato di determinazione del tasso di cambio in economie finanziariamente integrate, coerente con la PTI, si veda Bossone (2021c).

[11] Si vedano in proposito i riferimenti bibliografici riportati nella sezione sulla letteratura di Bossone (2019).

[12] Commento di James Meade riportato in Aspromourgos (2018).

[13]JMK definì il budget di conto capitale come «a regular survey and analysis of the relationship between sources of savings and different types of investment and a balance sheet showing how they have been brought into equality for the past year, and a forecast of the same for the year to come» (si veda The Collected Writings of John Maynard Keynes, Volume 27: Activities 1940–1946: Shaping the Post-War World: Employment and Commodities, Moggridge, 1980, p. 368). Quindi, sul bilancio di conto capitale il governo prevede il deficit della domanda privata e fissa un livello di spesa per investimenti pubblici tale da soddisfare i requisiti di risparmio-investimento per la piena occupazione.

[14] Sul perché egli non abbia dato un giudizio negativo e senza riserve negativo sulla finanza funzionale di Abba Lerner, nonostante la sua LPT sia con quest’ultima in evidente, piena contraddizione, suggerisco un punto di vista nel mio Bossone (2020c).

[15] Si vedano al riguardo i lavori di Tily già citati.

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