Anche grazie al pluridecennale lavoro di Elinor Ostrom (1933-2012) ci siamo finalmente liberati dell’idea che i commons siano “una tragedia”. È un’idea che Garret Hardin lanciò su Science nel 1968: se l’uso di un bene è libero allora quel bene prima o dopo si esaurirà; la soluzione è la privatizzazione dei beni comuni[1]. Ma come lo stesso Hardin ha riconosciuto nel 1998, nella sua idea c’era un errore di fondo: la tragedia non è dei commons in quanto tali, ma degli “unmanaged commons”[2]. La differenza rilevante allora non è tra assenza di proprietà e proprietà privata, ma tra assenza o presenza di gestione. Su questa critica si innesta il lavoro di Ostrom: per la gestione dei beni comuni non ci sono solo lo Stato e il mercato, c’è anche l’auto-organizzazione degli utilizzatori[3]. Una constatazione scientifica che oggi è anche una bandiera ideologica, come testimonia ad esempio il recente volume collettivo “The wealth of the commons”[4].
Ma nel revival scientifico e politico dei beni comuni c’è il rischio di una semplificazione e di un errore. Come aveva fatto Hardin si confonde la natura del bene e la regolazione del suo uso. I beni comuni non sono beni pubblici, ma sono degli ibridi[5]: come i beni privati sono a consumo “rivale” (se io pesco nel laghetto, tu avrai meno pesce a disposizione), come i beni pubblici sono a consumo “non escludibile” (tutti possono pescare nel laghetto). Ma la questione cruciale non è se il bene è comune o no; la questione cruciale è: quale assetto istituzionale regola il suo uso? Il mercato? (Qualcuno si compra il laghetto e vende i diritti di pesca). Lo Stato? (Con leggi, controlli e sanzioni, che regolano l’accesso al lago). O l’auto-organizzazione degli utenti? (La comunità locale dei pescatori si dà delle regole, non necessariamente formalizzate).
Non è per mero puntiglio che bisognerebbe tenere distinte la natura del bene e la sua regolazione. La questione dei commons riguarda beni non solo locali, ma anche globali: l’aria, gli oceani, il genoma umano, e così via. E allora non basta invocare per questi l’attribuzione dell’etichetta di “bene comune”, bisogna invece attivarsi perché la loro gestione condivisa abbia un quadro istituzionale chiaro[6]. Il punto non è il bene comune in quanto tale, ma l’auto-organizzazione della sua gestione. E la differenza non è di poco conto.
*Università di Sassari