Chi salverà l’Europa dall’euro?

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Dopo gli articoli apparsi sull’Economist e sul Washington Post e il reportage di Repubblica, è cresciuto l’interesse per l’economia ‘neo-cartalista’, nota anche con l’acronimo MMT (Modern Monetary Theory). Qui vorrei proporre ai lettori di Economia e Politica una sintesi dei concetti principali di questo approccio ‘eterodosso’ per ricavarne alcune ricette per l’Europa, in alternativa alla visione che domina il dibattito in corso, e che si può riassumere più o meno così:

La crisi dell’euro non è un problema della moneta unica europea, che invece ha dimostrato di mantenere stabile il proprio potere d’acquisto interno ed estero, grazie alla BCE. È piuttosto un problema di alcuni stati che hanno fallito su due fronti: la competitività e l’equilibrio dei conti pubblici. In altre parole, se fossimo tutti come la Germania l’area dell’euro godrebbe di ottima salute. Per quei paesi che hanno fallito, e che possono ancora rimboccarsi le maniche per evitare di uscire dall’euro, la ricetta è una sola: austerità e riforme strutturali, e quindi sacrifici fino a quando le riforme non daranno i loro frutti. È un cammino non breve, né facile, ma è l’unico percorribile: solo riducendo sprechi e costi di produzione (anche attraverso una minor tutela del lavoro dipendente) si riacquisterà la competitività che consentirà di creare nuovi posti di lavoro.

Secondo la MMT, le ragioni della crisi non sono affatto queste, né le ricette sul tavolo dell’Europa (e dell’Italia) hanno una qualche possibilità di successo. E in considerazione del fatto che l’Europa, tra summit, annunci della BCE e nuovi trattati, entra ormai nel terzo anno della “sua” crisi, può essere utile esaminare alcune proposizioni neo-cartaliste e valutare le proposte per l’Europa che se ne possono trarre. Si tratta, d’altra parte, di proposte condivise da un più ampio fronte di economisti di formazione keynesiana e postkeynesiana, con i quali la MMT condivide alcuni principi di fondo.

1. La moneta è un istituzione politica, non una manifestazione delle leggi del mercato

È il punto centrale della teoria neo-cartalista. La moneta, come gli scienziati sociali non economisti ben sanno, è un fenomeno politico-istituzionale, sia dal punto di vista storico che logico. È documento (‘carta’) emessa dallo stato. Non è la soluzione dei privati al problema dei costi di transazione. In un celebre articolo del 1998, Charles Goodhart[1] mosse una serie irresistibile di obiezioni alla teoria privata della moneta, concludendo che la costruzione dell’euro è a rischio: la separazione tra moneta e sovranità politica, spesso elogiata dagli architetti dell’euro come la vera forza della nuova moneta unica, costituisce invece un elemento di profonda fragilità. A distanza di oltre un decennio, I fatti danno ragione a Goodhart.

2. Ogni taglio della spesa e ogni aumento delle tasse riduce la ricchezza finanziaria di famiglie e imprese

Si tratta di un principio che si ricava dalla contabilità settoriale: il disavanzo finanziario di un settore corrisponde sempre ad un equivalente avanzo finanziario di un altro settore. Nel caso del disavanzo pubblico, la maggior ricchezza finanziaria del settore privato corrisponde all’emissione dei titoli e/o delle riserve bancarie prodotti dal disavanzo[2]. In altre parole, il disavanzo pubblico crea (non distrugge) risparmio privato.

Ciò significa che lo sforzo coordinato dell’Europa nel ridurre i disavanzi pubblici comporta una pari riduzione delle attività finanziarie di famiglie e imprese, con effetti depressivi su consumi, investimenti e occupazione. [3] È vero: anche nella letteratura mainstream non si legge più che l’austerità è espansiva. Ma qui c’è un aspetto in più: il disavanzo del settore pubblico è considerato l’unica sorgente netta di ricchezza finanziaria per il settore privato. L’unica alternativa, e cioè un avanzo commerciale con l’estero, è un gioco a somma a zero tra l’esportatore netto e l’importatore netto. Anche la Cina l’ha capito e si sta prudentemente spostando verso un maggior peso dei consumi interni, anche grazie al ruolo della politica fiscale. Gli Europei preferiscono invece la sterile virtù dei bilanci in pareggio.

3. Solo uno stato che si lega le mani rinunciando alla propria sovranità monetaria può trovarsi nell’impossibilità di pagare il servizio del debito

La politica fiscale di uno stato la cui moneta non sia vincolata da accordi di cambio è sempre libera di perseguire la piena occupazione e la stabilità dei prezzi. Il rischio di default dei titoli pubblici entra in gioco solo quando un paese intende garantire un tasso di conversione fisso della propria moneta con una valuta estera, oppure quando un paese rinuncia alla propria moneta.[4]

La crisi europea è dunque una crisi, in primo luogo, di sovranità monetaria. Questa, invece che essere trasferita dalla periferia al centro dell’Unione, è finita nelle mani della BCE, che ha poteri di gestione delle riserve nel sistema dei pagamenti, ma non di politica fiscale. In queste condizioni, era solo una questione di tempo (e di avverse condizioni dell’economia mondiale) prima che i paesi con i disavanzi pubblici e commerciali maggiori si trovassero in condizioni di rischio di default e si manifestasse la “crisi del debito sovrano”, che “sovrano”, in realtà non è più.

4. L’inflazione non è generata da tassi d’interesse troppo bassi, ma si manifesta invece per cause esterne (il prezzo del petrolio) oppure, per cause interne, a causa di un disavanzo pubblico eccessivo rispetto alla capacità produttiva del paese

Questa è la parte più eminentemente teorica. Più che di Modern Monetary Theory (che è un termine a mio parere poco pregnante) bisognerebbe parlare di “teoria del monopolio della moneta”. In altre parole, l’offerta di moneta è vista come un caso di monopolio del settore pubblico che è in grado, come insegna la teoria del monopolio, di fissarne il prezzo, lasciando che la quantità si aggiusti alla domanda. Allo stesso modo, lo stato è in grado di ancorare i prezzi (invece che all’oro) alla merce base dell’economia: il lavoro. Invece che utilizzare la disoccupazione come strumento per stabilizzare i salari, lo stato diventa il datore di lavoro di ultima istanza e fissa un salario minimo, dando un lavoro ai disoccupati.[5]

Che fare?

La crisi del debito “NON-sovrano” è diventata rapidamente una profonda crisi dell’occupazione e del futuro stesso dell’Europa e delle sue più giovani generazioni. La ricetta che più spesso viene ripetuta da politici, media e istituzioni è quella che conosciamo. L’alternativa offerta dall’approccio qui descritto si può invece riassumere in due pilastri fondamentali, cha partono dalla premessa che la crisi dell’euro è duplice: A) di finanziamento degli stati e B) di insufficiente domanda aggregata. E occorre una duplice risposta.

A. La crisi finanziaria si risolve unicamente con il coinvolgimento della BCE

Il susseguirsi di piani di salvataggio è un esercizio tecnicamente inefficace e pericoloso: paesi non sovrani non possono essere finanziati da altri paesi non sovrani. Se non è politicamente accettabile che la BCE diventi il prestatore di ultima istanza dei 17 paesi, occorre allora trovare una soluzione che, aggirando l’ostacolo politico, faccia comunque riscorso al monopolista della moneta in Europa: la BCE. Sta alla leadership politica europea, che si è fin qui dimostrata inadeguata alla straordinaria sfida che abbiamo davanti, battere un colpo!

B. L’occupazione (e, di conseguenza, anche il credito bancario) cresce al crescere della domanda aggregata, e non per effetto delle liberalizzazioni, del pareggio di bilancio, o del ‘quantitative easing’ della BCE

Per uscire dalla recessione non bastano gli strumenti della BCE. Ed è chiaro che in un’unione monetaria non è possibile, per i motivi discussi sopra, affidarsi alle politiche fiscali espansive indipendenti dei singoli paesi, e che quindi una qualche forma di coordinamento fiscale è il prezzo inevitabile da pagare all’integrazione europea. Ma allora o si decide di elevare il limite del disavanzo concesso a tutti i paesi (una strada politicamente in salita all’attuale stato delle cose), oppure occorre trovare una strada comune che dia nuovo ossigeno all’economia europea oberata da una pressione fiscale troppo alta per la dimensione attuale di spesa pubblica.

Una strada meno soggetta a veti politici potrebbe essere questa. L’Europa dovrebbe tenere un summit nel corso del quale i 17 paesi dell’euro concordano un considerevole taglio fiscale nell’intera area dell’euro. Può trattarsi di una riduzione di un imposta regressiva come l’Iva, oppure delle imposte che gravano sui redditi medi e bassi. Contestualmente, i governi europei dovrebbero annunciare che il calo di introiti corrisponderà a una raccolta attraverso titoli europei emessi dall’European Financial Stability Facility (EFSF) con la garanzia della BCE. Nello stesso summit i paesi dell’euro dovrebbero anche preannunciare che nel corso del summit successivo daranno il via ad una seconda emissione di Eurobonds diretta a sostenere un programma ambizioso di infrastrutture nel campo della comunicazione digitale, dei trasporti e dell’ambiente.

È chiedere troppo a questa Europa?

*Andrea Terzi scrive su questi temi su www.mecpoc.org.

[1] Charles A.E. Goodhart, The two concepts of money: Implications for the analysis of optimal currency areas, European Journal of Political Economy, Vol. 14, 1998, pp. 407–32.
[2] Andrea Terzi, Appunti di economia monetaria: Stock di moneta, flussi monetari, tassi d’interesse e saldi finanziari, EDUCatt, 2012.
[3] Davvero una riduzione delle tutele del lavoro dipendente può creare posti di lavoro nelle attuali condizioni di austerità? Non vorrei che quando ci si accorgerà che così non è, si cominci a dire che la riduzione doveva essere più ampia!
[4] Si veda Warren Mosler, The seven deadly innocent frauds of economic policy, Valance, 2010.
[5] Si veda, ad esempio, L. Randall Wray, Keynes after 75 Years: Rethinking Money as a Public Monopoly Working Paper No. 658, Levy Economics Institute, March 2011.

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