I «beni comuni» tra realtà e utopia

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Political and social notes

Bisogna essere grati a Toni Negri e Michael Hardt per aver dedicato quest’ultima corposa loro fatica al tema del «comune»[1]. Negli ultimi tempi, infatti, abbiamo assistito al costituirsi di un cospicuo fronte di resistenza intellettuale e popolare intorno alla difesa di taluni «beni comuni», come l’acqua o l’ambiente, che ha tentato di opporre un argine alla furia privatizzatrice che imperversa nelle società industrializzate da oltre tre decenni. È un fronte assai composito per culture politiche d’appartenenza, che però si riconosce nella convinzione che i «beni comuni» rappresenterebbero un tertium genus capace di eludere la contrapposizione ritenuta ormai superata tra «pubblico» e «privato». È dunque benvenuto ogni tentativo di dare a queste rivendicazioni un’adeguata sistemazione teorica: testarne la plausibilità è infatti l’unico modo per verificare le ragioni (o eventualmente i torti) di quanti sostengono che l’opposizione tra pubblico e privato è ciò che oggi impedirebbe lo sviluppo di una gestione realmente cooperativa e condivisa dell’acqua, del sapere, della salute, dell’energia e del patrimonio culturale.

Vediamo allora in dettaglio. Con il termine «comune», Negri e Hardt intendono, in primo luogo, «la ricchezza comune del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura – che nei testi classici del pensiero politico del mondo occidentale è sovente caratterizzata come l’eredità di tutta l’umanità da condividere insieme». In questo senso, leggiamo fin dalle prime pagine del ponderoso volume, «il linguaggio, gli affetti e le espressioni umane sono per la maggior parte comuni». C’è però un altro significato che Negri e Hardt attribuiscono al «comune»: «Per “comune” – essi infatti dicono – si deve intendere, con maggior precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale».

È bene precisare che nell’equivalenza postulata tra questi due significati si colloca la vera e propria novità della riflessione di Negri e Hardt. Tradizionalmente, infatti, con la prima accezione del termine «comune» si designano quei beni che i giuristi definiscono come «liberi»: non solo perché non appartengono a nessuno, ma soprattutto perché non sono – per loro essenza o per vincoli di legge – suscettibili di appropriazione. L’aria che respiriamo o il linguaggio che ci permette di comunicare ne sono gli esempi più classici.

Discorso diverso vale invece per i beni (e naturalmente i servizi) prodotti. Ogni produzione presuppone infatti un processo lavorativo e quest’ultimo – per dirla con Marx – implica necessariamente una «appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani»[2], che a sua volta comporta una preventiva distribuzione dei mezzi di produzione secondo dati rapporti sociali e la sussunzione degli individui che lavorano entro specifici rapporti di produzione, che concernono sia gli agenti della produzione che i mezzi materiali ad essa occorrenti. E se è vero che ogni processo lavorativo si avvale di norma di beni che a stretto rigore non sono suscettibili di appropriazione (come l’aria o il linguaggio, appunto), non è meno vero che residua una profonda differenza fra gli uni e gli altri: i beni che sono comuni in quanto «liberi» non sono infatti producibili mediante il lavoro, al punto che anche quelle trasformazioni che subiscono in dipendenza dell’attività umana si inquadrano nella loro «storia naturale»; i beni producibili mediante lavoro sono invece oggetto di appropriazione entro specifici rapporti di produzione e possono essere «comuni» solo se la forma sociale consustanziale a questi ultimi li rende «non rivali» e «non esclusivi», ossia tali che il loro godimento da parte di Tizio non impedisce un analogo godimento da parte di Caio.

Evocando Marx abbiamo inteso suggerire che la distinzione appena ricordata ha una lunga tradizione e solide ragioni teoretiche: suo obiettivo precipuo è di sfuggire a quelle concezioni idealistiche del lavoro sociale che ispirano non solo le illusioni umanistiche di quanti vedono il lavoro come «pura attività creativa», ma anche le moderne trattazioni degli economisti neoclassici circa i beni supposti pubblici «per natura» (le quali, ben s’intende, sono funzionali a sostenere che tutto ciò che non è «naturalmente pubblico» non deve nemmeno esserlo)[3]. Ma se ciò è vero, l’equivalenza semantica postulata da Negri e Hardt tra i due significati del «comune» non può essere assunta in termini descrittivi: occorrerebbe piuttosto un’analisi normativa, che cioè dimostrasse che, se così pure è stato finora, così non deve più essere.

Invano però il lettore la ricercherebbe nelle quattrocento e più pagine del libro. Lungi dallo spiegarci entro quali nuovi rapporti di produzione bisognerebbe concepire l’allocazione del processo lavorativo e dei suoi prodotti al fine di spingerci «oltre il privato e il pubblico», Negri e Hardt si limitano infatti a dirci che il carattere «biopolitico» del processo lavorativo ha costituito il «comune» non solo in quanto forza produttiva, ma anche in quanto «forma in cui la ricchezza è prodotta»: posto che «il lavoro biopolitico è sempre più autonomo» dal capitale e dallo stato, ci sarebbe solo bisogno di lottare in difesa della «libertà della forza lavoro biopolitica» (assicurandole «un reddito minimo garantito su scala nazionale o globale») e di assicurare alle popolazioni mondiali «le infrastrutture materiali» di cui sono ancora prive, a cominciare da una «piattaforma fisica (che permetta l’accesso alle reti comunicative in connessione cablata e senza fili)» per proseguire con quella «logica (protocolli e codici sorgente aperti)» e un’altra «ricca di contenuti (le opere e le ricerche scientifiche, intellettuali e culturali)».

Sennonché, ciò equivale a presupporre quel che invece bisognerebbe dimostrare. L’«autonomia» attiene infatti alle modalità dell’attività lavorativa e di per sé non può dirci nulla in merito alla forma che assume il suo prodotto. L’autonomia rilevantissima di cui gode ogni dirigente d’impresa, ad esempio, non impedisce di qualificare il prodotto del suo lavoro come una merce, così come l’autonomia di cui gode un dirigente pubblico non osta al riconoscimento della differente forma ch’è propria del prodotto della sua attività. Lo stesso vale per il carattere «comune», cioè sociale, del processo lavorativo, che non a caso Marx riconosceva come tipico dell’industria capitalistica e noi possiamo ben riferire anche al lavoro alle dipendenze del settore pubblico. Del resto, se lo stesso Marx parlava di un «comunismo dei capitalisti» in relazione al processo che conduce alla spartizione della massa del plusvalore e alla genesi del profitto medio[4], non potremmo noi analogamente evocare un «comunismo dei pubblici poteri» per riferirci al modo in cui questi ultimi hanno consentito effettivamente di rendere taluni beni e servizi non escludibili e non rivali? A cos’altro dovremmo riferire quel che Negri e Hardt chiamano «il comune che funge da base della produzione biopolitica» e che denunciano essere oggetto delle strategie acquisitive del capitalismo? Lo «smantellamento delle istituzioni della pubblica istruzione», la «privatizzazione dell’educazione primaria e la drastica riduzione dei finanziamenti alla scuola secondaria» non rimandano forse alla distruzione di quella forma di «comunismo» che abbiamo sperimentato grazie all’attività economica dei pubblici poteri?

Non crediamo di sbagliare se diciamo che l’assimilazione tipicamente sessantottina tra capitalismo e socialismo faccia qui velo (ed è un velo assai spesso) alla riflessione di Negri e Hardt. Sostenere che «il “socialismo reale” è stato una straordinaria macchina dell’accumulazione capitalistica», che si sarebbe avvalso di «alcuni strumenti di ispirazione keynesiana che le potenze capitalistiche avevano adottato solo nei momenti delle crisi cicliche», significa non solo ignorare che fu Keynes a ispirarsi all’Urss nell’elaborazione della General Theory (e non i bolscevichi a copiarlo)[5], ma soprattutto fraintendere completamente il significato della «rivoluzione keynesiana»: la quale appunto muove dal convincimento che lo sviluppo delle nostre società ha fatto sorgere taluni bisogni (come la «programmazione urbanistica» o la «conservazione dell’ambiente naturale», per ripetere due suoi esempi) tali che «è impossibile per l’individuo, anche se lo volesse, intraprendere le iniziative opportune» per soddisfarli: anzi, «anche se egli si imbarcasse in tali imprese, non sarebbe assolutamente in grado di raccoglierne i benefici». Solo «se fossero adottati e impiegati forti poteri di direzione centrale, enormi vantaggi potrebbero riversarsi sull’intera comunità»[6].

Si può aggiungere che attribuire al «lavoro biopolitico» la capacità di produrre cooperazione in modo «autonomo» rischia di mettere capo ad un’apologia di quelle collaborazioni coordinate e continuative che il ministro Sacconi ha assunto come archetipo per la riscrittura dello Statuto dei lavoratori. È infatti evidente che codesta autonomia può essere facilmente declinata nell’utopia di una società di «liberi produttori indipendenti», che ricalcherebbe di fatto la visione walrasiana del perfetto mercato concorrenziale: non è certo un caso se Aldo Bonomi, che per primo ha scritto sul «trionfo della moltitudine»[7], è approdato infine a vestire i panni dell’aedo della piccola impresa e del lavoro autonomo sulle rosee pagine del quotidiano di Confindustria.

Specularmente, se volessimo prendere sul serio le «riforme» sollecitate da Negri e Hardt, è facile concludere che implicherebbero la nazionalizzazione di buona parte dell’apparato produttivo[8]: si tratterebbe infatti o di piegare le dotazioni industriali già esistenti a logiche di funzionamento non capitalistiche, oppure di organizzare la produzione per l’esportazione in modo da ottenere i necessari trasferimenti di tecnologia dall’estero (giusto alla maniera del primo piano quinquennale sovietico).

Va da sé che nell’una come nell’altra ipotesi non saremmo affatto «oltre il privato e il pubblico», come pretendono Negri, Hardt e altri teorici dei «beni comuni»[9], ma saldamente all’interno dell’uno o dell’altro: del mercato o dello stato, per chiamare le cose col loro nome. Sovvengono al riguardo le lucide parole di P. J. D. Wiles: «quelli che desiderano de-stalinizzare un particolare tipo di attività economiche devono lasciarle al libero mercato, come hanno scoperto gli jugoslavi; così come coloro che disdegnano le leggi della domanda e dell’offerta devono stalinizzare i settori che desiderano riformare. Non c’è una terza via. L’economia nel suo insieme può essere mista, ma ogni singola attività dev’essere l’una cosa o l’altra. La funzione della vasta burocrazia economica staliniana è di fare amministrativamente ciò che il mercato fa automaticamente; o il consumatore e il profitto dicono al produttore cosa fare (con o senza l’aiuto della concorrenza tra produttori) o glielo dice il pianificatore centrale. La ripartizione delle risorse è fatta alla periferia o al centro, col mercato o senza. Queste ultime (quattro) parole mostrano che la dicotomia, economia di comando o mercato, è da un punto di vista logico esauriente»[10]. E se il vero radicalismo stesse piuttosto nel riconoscere che sono ancora questi i termini dell’alternativa?

 

 

*Une versione ridotta di questo articolo è apparsa su Alias del 9 ottobre 2010.
[1]Michael Hardt, Antonio Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Milano, Rizzoli, 2010.
[2] Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, libro I, Roma, Editori Riuniti, 1989, p. 218.
[3] Per la verità, i neoclassici più consequenziali giungono perfino a negare che vi siano beni pubblici di tal fatta: si veda sul punto Ronald H. Coase, Il faro nell’economia, in Id., Impresa, mercato e diritto, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 291-317 (dove anche una rassegna critica della posizione tradizionale).
[4] Si veda la lettera a Engels del 30 aprile 1868, in Carteggio Marx-Engels, V, Roma, Edizioni Rinascita, 1951, p. 184. Considerazioni analoghe in K. Marx, Storia dell’economia politica. Teorie sul plusvalore III, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 82.
[5] Sia consentito sul punto il rinvio a Giorgio Lunghini, Luigi Cavallaro, Prefazione a John Maynard Keynes, Laissez faire e comunismo, Roma, DeriveApprodi, 2010.
[6] J. M. Keynes, La pianificazione statale, in Id., Come uscire dalla crisi, a cura di P. Sabbatini, Roma-Bari, Laterza, 2001, p. 64.
[7] Aldo Bonomi, Il trionfo della moltitudine. Forme e conflitti della società che viene, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. In effetti, quando si legge che i comportamenti della moltitudine obbediscono alla «logica delle associazioni corpuscolari» (M. Hardt, A. Negri, Comune, cit., p. 53), riesce davvero difficile non pensare a Walras.
[8] Del resto, anche Walras sostenne posizioni eterodosse in materia di proprietà dei mezzi di produzione: cfr. Léon Walras, Studi di economia sociale, a cura di A. Salsano, Roma, Archivio Guido Izzi, vol. II, 1993.
[9] Emblematico, al riguardo, l’impasse cui pervengono le ricerche più recenti di Elinor Ostrom, insignita lo scorso anno del premio Nobel per l’economia. Si veda sul punto Emiliano Brancaccio, La crisi del pensiero unico, Milano, Franco Angeli, 2010, pp. 194-197.
[10] P. J. D. Wiles, Economia politica del comunismo, Torino, UTET, 1969, p. 22.

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