I due debiti gemelli dell’Eurozona

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After the 2008 financial crisis, being a member of the Monetary Union was a guarantee in the case of current account imbalances or the repayment of debt. However, the crisis has brought the principle of national responsibility up again: the Monetary union becomes national just when there is more need for “federal” policies. The outcome of this mess is a mixture of policies, fiscal retrenchment and internal real devaluation, as potentially damaging on internal demand and the ability to repay the debt, as incapable of coping with the real problem of the Monetary Union as we know it: the external trade deficit and volatile capital flows.

A seguito della crisi finanziaria del 2007, i paesi dell’Eurozona hanno teso a separarsi in due grossi blocchi a seconda della loro capacità di rispettare i vincoli comunitari dei parametri relativi al disavanzo e al debito pubblico.

L’opinione prevalente, e in primo luogo quella delle istituzioni comunitarie, ha teso, in base a un discutibile criterio di causalità, a mettere in relazione fragilità nazionali e dissipatezza delle finanze pubbliche e a individuare il fiscal retrenchment quale condizione necessaria per il ripristino della credibilità nazionale e della sopravvivenza della valuta unica.

Man mano che la crisi si acutizzava, un più rilevante elemento di squilibrio si evidenziava: un’external imbalance, ovvero la presenza, e in taluni casi la compresenza, di deficit delle partite correnti e di deflusso dei capitali a breve termine. Si tratta di uno squilibrio decisivo che merita un’attenta valutazione, ma che, dalla governance europea è stato celermente assorbito nell’interpretazione consueta, in ragione delle relazioni che si presume esistano tra external imbalance e fiscal imbalance. Una sintesi lucida di questo approccio è contenuta nell’ultimo Rapporto dello European Economy Advisory Group (EEAG 2012): un incremento del disavanzo e del debito pubblico agisce negativamente su entrambe le componenti della bilancia dei pagamenti, aumentando il livello di importazioni di beni e minando la credibilità dei titoli pubblici. La crisi dei paesi fragili dell’Eurozona è dunque la crisi di due debiti gemelli, quello interno e quello estero, che devono essere ridimensionati tramite manovre simultanee di fiscal retrenchment, di contenimento dei salari e di riforma del mercato del lavoro (Kumhof e Laxton 2009; Sinn e Wollmershauser 2011).

Ma il ruolo degli squilibri esterni può essere analizzato in un contesto diverso e meno convenzionale (Alessandrini et al.2012; Cesaratto 2012, De Grauwe 2011, De Grauwe e Yuemey 2012; Gros 2012), evidenziando come le relazioni commerciali europee, sin dalla nascita dell’area dell’Euro, sono state caratterizzate da scompensi crescenti e persistenti (Berger e Nitsch, 2010). In particolare tali squilibri si sono manifestati in maniera eterogenea: i paesi periferici hanno aggravato disavanzi già esistenti alla nascita dell’Euro; un secondo gruppo, Italia, Francia e Belgio, hanno visto convertire avanzi contenuti in saldi negativi; un terzo gruppo, infine, ha progressivamente incrementato i propri surplus (Deutsche Bundesbank 2010). Secondo questo approccio, dunque, l’andamento delle partite correnti gioca un ruolo rilevante, poiché la zona Euro è stata edificata su di un equilibrio precario sorretto da afflussi di capitale a breve termine, difficili da mantenere dopo lo scoppio della crisi finanziaria, ma privo di meccanismi compensativi delle variazioni strutturali del tasso di cambio reale. Infatti, a seguito della propagazione in Europa della recessione, i mercati finanziari si sono rivelati del tutto indisponibili a finanziare la crescita del debito nazionale, pubblico o privato, nonostante la crescita dei rendimenti all’emissione.

Secondo una tale ricostruzione, dunque, la crisi dell’Euro nasce da profondi squilibri reali, quelli degli scambi commerciali, e dall’andamento dei flussi di capitale; l’imbalance interna del settore pubblico è da considerarsi più l’effetto che la causa. Quel che è più grave è che, una volta che l’interazione tra squilibri si innesca, la spirale si trasforma in un processo che si autoalimenta (De Grauwe, 2012): gli squilibri reali esterni, che in definitiva sintetizzano la capacità di uno stato di ripagare il proprio debito, innescando incrementi degli spread sui titoli del debito pubblico, che, a loro volta, incentivano un’ulteriore fuoriuscita di capitali (Gros 2011). In questo contesto il contenimento del disavanzo pubblico e dei salari, e cioè “il vecchio vino in nuove bottiglie” (Fratzcher 2011), costituisce un ulteriore elemento di instabilità, deprimendo la domanda interna, la capacità di ripagare il debito e indebolire, a lungo andare, la stessa prosperità dei paesi in surplus. Meccanismi di riequilibrio delle inadeguatezze su cui l’Euro è sorto paiono, secondo alcuni (De Grauwe 2008), ovviabili solo con un potenziamento politico-federale dell’Unione Europea, riproponendo, con un percorso diverso ma con argomentazioni non dissimili, le analisi di chi considera statuto democratico, sovranità nazionale e globalizzazione finanziaria un “trilemma incompatibile” (Rodrik 2011).

Una maggiore attenzione, da parte del filone alternativo alle ricostruzioni ufficiali, dovrebbe, tuttavia, essere prestata alle modalità di comportamento dei flussi di capitali a breve termine e alle relazioni con l’andamento dei tassi di interesse nazionali. A voler essere sintetici è come se i paesi fragili dell’area Euro ereditassero molte delle caratteristiche dei paesi coinvolti, alla fine del decennio scorso, nella Crisi Asiatica (Calvo 1998; Cole e Kehoe 1998). E’ da ricordare che allora la crescita del disavanzo delle partite correnti dei paesi interessati innescò il sudden stop dei prestiti in valuta estera a breve termine (Becker e Noone 2008) e un disavanzo del conto capitale della bilancia dei pagamenti (Forbes e Warnock 2012). Si tratta di un fenomeno oramai consolidato nell’economia europea (Merler e Pisany-Ferry 2012) e che potrebbe essere etichettato come una “Curva di Laffer dei Rendimenti Rischiosi”: l’incremento dei tassi di interesse nazionali per incentivare l’afflusso di capitali che bilancino i disavanzi delle partite correnti, producono, secondo un perverso paradosso, una maggiore fuoriuscita di capitali (Pakko 1999).

I maggiori tassi di interesse, in questo caso, non rappresentano un segnale di maggiore rendimento del portafoglio dell’investitore, quanto un indicatore di maggiore rischiosità del paese emittente e, dunque, la loro evoluzione sfugge a qualunque considerazione relativa al mercato dei titoli in quanto tale.

Se tali meccanismi sono trascurati è possibile delineare traiettorie che innescano spirali di instabilità tendenzialmente esplosive (Canale e Marani 2012). Immaginiamo, ad esempio, che uno shock negativo della domanda aggregata necessiti di politiche fiscali di stabilizzazione, ma che i mercati finanziari internazionali chiedano, in condizioni di elevati disavanzi delle partite correnti, per finanziare il deficit aggiuntivo tassi d’interesse più elevati di quelli che uno stato può sopportare quando è costretto ad utilizzare la politica fiscale come strumento di stabilizzazione”. In questo caso non è possibile individuare un livello di equilibrio del disavanzo pubblico: esso si autoalimenta per il livello dei tassi richiesti al collocamento dei titoli.

L’esercizio analitico, sia pur astratto, indica quanto sia sterile e semplicistico soffermarsi sull’evoluzione della politica fiscale tralasciando di considerare la connessione tra andamento delle partite correnti, movimenti di capitale e tassi di interesse.

I tempi cambiano, e non in meglio. Sino alla crisi finanziaria del 2008 l’adesione all’Unione Monetaria era fonte di garanzia per gli squilibri delle partite correnti e per il rimborso del debito. La crisi, paradossalmente, ripropone il principio di responsabilità nazionale e della loro adeguatezza rispetto all’incremento dei tassi di interesse e del deflusso di capitali. L’unione Monetaria si nazionalizza proprio nella fase in cui avrebbe avuto più bisogno di politiche “federali”. L’esito di tale inviluppo è un mix di politiche, fiscal retrenchment e internal real devaluation, tanto potenzialmente recessivo sulla domanda interna e sulla capacità di ripagare il debito, quanto incapace di affrontare il vero nodo dell’Unione Monetaria come fin qui concepita: l’external imbalance dei disavanzi correnti e dei flussi volatili di capitali.

La fragilità di alcuni paesi e le asimmetrie all’interno dell’UME derivano dunque dal fatto che la crisi dell’Eurozona non è stata identificata come crisi delle relazioni commerciali e finanziarie. Gli shock derivanti dalla crisi si sono trasmessi ai paesi attraverso i bilanci delle banche (Irlanda e Spagna) e attraverso gli effetti reali sulla domanda aggregata (Italia e Grecia). I mercati finanziari a fronte di una presunta incapacità di onorare i debiti contratti hanno spostato i loro capitali all’estero determinando un continuo e sempre crescente innalzamento dei tassi d’interesse. In un normale sistema a cambi fissi questa situazione sarebbe stata sostenibile fino a quando la necessità di mantenere il pareggio dei conti con l’estero (attraverso tassi più alti) non avesse determinato un costo sull’equilibrio interno troppo elevato.

La crisi dello SME del 1992 ha impartito ben pochi insegnamenti. Nella situazione attuale, l’impossibilità di agire con strumenti di politica monetaria per porre fine alla fuga di capitali costringe i paesi in difficoltà a effettuare restrizioni fiscali. E la spirale viziosa è l’unico risultato probabile.

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