Se si escludono i liberisti sopravvissuti al tramonto del liberismo, si registra un consenso piuttosto diffuso sulla necessità del ritorno all’utilizzo di politiche fiscali espansive per cercare di far fronte alla crisi, dopo un trentennio nel quale è stata dominante la convinzione della superiore efficacia della politica monetaria. Naturalmente, se di nuovo consenso si può parlare, occorre chiarire che non vi è affatto convergenza di opinioni né sulla qualità della spesa pubblica, né sulla durata necessaria del ritorno all’intervento pubblico in economia, e tantomeno sulla possibile espansione della sfera pubblica alla produzione diretta di beni e servizi e al controllo degli assetti proprietari di banche e imprese. Al momento, le traduzione più significative della convinzione della superiore efficacia della spesa pubblica in disavanzo rispetto alla manovra dei tassi di interesse le si ritrovano nel programma di politica economica dell’Amministrazione Obama, con uno stanziamento complessivo di 787 miliardi di dollari, equivalente al 5,6% del PIL statunitense, e nel piano finanziario cinese del novembre 2008 con uno stanziamento di oltre 580 dollari.
Il nostro Governo ha assunto, nel giro di pochi mesi, due posizioni radicalmente opposte. In una prima fase, ha cercato di elargire fiducia a costo zero, nella (vana) speranza di accrescere i consumi mediante messaggi televisivi. In una seconda fase, si è riconosciuto che la crisi è in atto anche in Italia, ed è preoccupante, e che il Governo è impegnato a farvi fronte con tutti gli strumenti a sua disposizione. Ma è sufficiente una rapida analisi dei dati forniti dalla Ragioneria generale dello Stato e dal Ministero dell’Economia per giungere alla conclusione che ciò che viene comunicato non corrisponde affatto a ciò che effettivamente si sta facendo.
Considerando i principali provvedimenti fin qui assunti – l’abolizione dell’ICI per la prima casa, la manovra finanziaria estiva, la legge finanziaria 2009 e il cosiddetto pacchetto anticrisi – si rileva che le risorse lorde impiegate ammontano a 18,1 miliardi di euro, pari all’1,2% del PIL, mentre la somma delle maggiori entrate e delle minori spese correnti e in conto capitale ammonta a 28,3 miliardi di euro, pari all’1,8% del PIL. In più, l’ultima relazione del Ministero dell’Economia certifica che la pressione fiscale è aumentata dal 42,8% del 2008 al 43,5% del 2009. In sostanza, a fronte dell’aumento della disoccupazione e della caduta dei salari, dell’aumento dei fallimenti d’impresa e della riduzione del PIL, il Governo italiano reagisce con una manovra fiscale di segno restrittivo, che peraltro comunque accresce sia il rapporto debito pubblico/PIL sia il rapporto deficit/PIL (quest’ultimo nell’ordine dello 0.7% nel 2008 e del 2,2% nel 2009, mantenendolo al 3,7%).
Si tratta di un rebus di non facile soluzione, che non può essere interamente risolto – come vuole l’opposizione parlamentare – con l’accusa di immobilismo rivolta al Governo, sia perché non si tratta di immobilismo (semmai di un deliberato freno alla crescita), sia perché è ben difficile ritenere che si tratti di incompetenza. La posizione ufficiale è che il Governo italiano non può permettersi ulteriori spese per il rischio di un aumento incontrollabile del debito pubblico. Il Ministro che con maggiore incisività ha reso esplicita questa tesi è stato Sacconi, che, paventando il rischio di bancarotta dello Stato italiano, è stato prontamente richiamato a maggiore cautela dal Presidente del Consiglio. E’ opportuno chiarire che il rapporto fra debito pubblico e PIL – parametro di riferimento per definire la ‘sostenibilità’ dell’indebitamento da parte dello Stato – è in aumento anche in Italia e che questo aumento è dovuto alla riduzione del PIL: riduzione che, detto incidentalmente, andrebbe contrastata precisamente con iniezioni di spesa pubblica, non con la sua riduzione.
Vi sono due possibili interpretazioni che possono dar conto di una politica fiscale restrittiva in regime di crisi.
1) Se fosse vera, la tesi della priorità del controllo dell’andamento del debito pubblico sarebbe a dir poco allarmante. Va innanzitutto chiarito che non esiste alcun criterio scientifico per determinare univocamente la sostenibilità del debito pubblico[1]. E tuttavia, un’espansione continua del debito può costituire un problema per la seguente ragione, ben nota agli addetti ai lavori. Al crescere dell’indebitamento pubblico, aumenta la spesa per interessi a carico dello Stato, alla quale si può far fronte o con ulteriore emissioni di titoli del debito pubblico (il che accresce ulteriormente il servizio del debito) o, in ultima analisi, con l’aumento della tassazione: in tal senso, si può dire che il debito pubblico si autoalimenta, così che il debito accumulato produce ulteriore debito per finanziare la crescente spesa per interessi. In più, per incentivare l’acquisto di titoli del debito pubblico lo Stato deve aumentare i tassi di interesse sulle nuove emissioni, e deve aumentarli a mano a mano che il rischio di insolvenza aumenta o che i ‘fondamentali’ dei Paesi concorrenti vengono ritenuti più stabili da chi opera nei mercati finanziari. Nel peggiore dei casi, si giunge al consolidamento del debito, ovvero a una condizione nella quale lo Stato non è più in grado di garantire il rimborso e può al più solo rinegoziare i tempi di pagamento, dilazionandoli, o – nell’ipotesi estrema – si può giungere al fallimento. Si consideri che, ad oggi, i buoni decennali tedeschi offrono un rendimento del 2,95 per cento mentre quelli italiani del 4,38. Un acronimo molto eloquente, che si deve alla fantasia inglese, coniato per individuare i Paesi europei con maggiore rischiosità è P.I.G.S. (porci): Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. In queste condizioni, non si può escludere del tutto che Sacconi abbia ragione e che, dunque, l’Italia e i P.I.G.S. fronteggino realmente il rischio di insolvenza e, dunque, di bancarotta, con conseguente fuoruscita dalla moneta unica, e che ciò che occorre fare è innanzitutto acquisire credibilità nei mercati finanziari mediante una gestione più ‘prudente’ della spesa pubblica[2]. Resterebbe, tuttavia, evasa la domanda sul perché i Paesi ‘forti’ del continente accettano di pagare la crisi, con crescente indebitamento, esonerando l’Italia e mantenendola nel loro club.
2) La manovra fiscale del Governo può anche essere letta come strategia di attesa, ovvero come un evidente caso di opportunismo[3]. Si tratta dell’attesa di un aumento della domanda estera che dovrebbe comportare un aumento delle esportazioni italiane e il conseguente aumento dei margini di profitto delle nostre imprese. Se la questione si pone in questi termini, resta da capire – e cercare di prevedere – l’entità e la durata della recessione globale; dal momento che quanto più questa sarà lunga e intensa, tanto maggiore sarà l’incremento nel tempo della disoccupazione italiana e, anche a causa del suo aumento, tanto maggiore sarà la caduta (ulteriore) dei salari. Con la specificazione – per nulla irrilevante – che i lavoratori licenziati oggi molto difficilmente verranno riassunti (se e) quando si uscirà dalla crisi. E’ ben noto, infatti, che la disoccupazione di lungo periodo è soggetta a fenomeni di ‘isteresi’, in base al quale i disoccupati di lunga data non sono in condizione di riconvertire o non perdere le competenze acquisite lavorando e, dunque, sperimentano una elevata probabilità della definitiva espulsione dal mercato del lavoro. Ed è noto che i soggetti maggiormente colpiti da questo problema – nel contesto italiano – sono i segmenti più deboli della forza-lavoro, normalmente donne e giovani meridionali, oltre agli ultracinquantenni. Di tutto ciò – ovvero dei costi sociali dell’opportunismo e della ricerca del rigore finanziario, derivanti dalle manovre restrittive di politica fiscale, e del come porvi rimedio – non è dato trovare indicazioni nei più importanti documenti ufficiali fin qui prodotti da questo Governo, se non il richiamo pedagogico ripetutamente sottolineato nel “Libro Bianco” del Ministro Sacconi, secondo il quale “Istituzioni e famiglie devono offrire ai giovani un modello di comportamento fondato sulla responsabilità”. Davvero ben poco, per non dire una beffa, per l’esercito di inoccupati e disoccupati – peraltro in continua crescita – quasi inevitabilmente destinati a rimanere tali.