Torniamo a discutere di economisti e economisti

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Political and social notes

Alla riunione annuale degli economisti italiani il governatore della Banca d’Italia è andato a difendere gli economisti (per i quali secondo lui qualcuno addirittura “sogna pogrom”) e gli studi economici, dei quali, come egli dice, “si è negata sia la valenza scientifica sia l’utilità sociale”.

Draghi è partito dall’ormai logora discussione sull’accusa che gli economisti non hanno saputo prevedere la crisi. Gli economisti amano richiamarla, forse perché distoglie l’attenzione da altre più imbarazzanti, e perché non è troppo difficile ribattere, come è stato fatto, che anche i meteorologi non sempre indovinano le loro previsioni, ma non per questo si nega validità alla meteorologia e si propone di chiudere gli uffici meteorologici. Comunque, nessuno mi sembra abbia fatto notare che se i meteorologi il giorno prima dell’uragano Katrina avessero detto che sulla Louisiana si prevedeva tempo bello stabile, doveva esserci parecchio che non andava nella loro meteorologia. Tra gli economisti previsioni del genere non mancano: alla fine del luglio 2008, quando la crisi dei mutui subprime era in pieno svolgimento, c’era chi sosteneva che quel che stava succedendo non era “catastrofico”, e auspicava che le Banche centrali alzassero i tassi “per evitare che l’inflazione sfugga di mano”.

Passando da una metafora all’altra, Draghi ha detto che l’economista è come un medico, che va valutato “sulla capacità di curare una malattia, anche quando non sia stato in grado di anticiparne il manifestarsi”; secondo lui gli economisti sarebbero stati bravissimi a “dar risposte alla crisi”, avendo essi “subito compreso le conseguenze drammatiche degli shock che si osservavano”. Il punto però è che gli economisti rassomigliano non tanto a bravi medici che sanno affrontare le conseguenze di malattie che non è loro compito prevedere, ma a medici che di queste malattie sembrano non conoscere le cause, visto che – prima dello scoppiare del bubbone – le hanno spesso lodate come un toccasana: tanti hanno cantato la spinta deregulation finanziaria degli ultimi venti anni (dei cui guasti oggi si tratta) come “sempre maggior fonte di crescita”. Insomma, più untori che medici. Che poi essi possano essersi improvvisamente svegliati, ed aver inventato cure efficacissime per quella stessa malattia, avrebbe del miracoloso (naturalmente i miracoli sono inspiegabili; per chi non ha la fede, incredibili). Ma come dimenticare che, ancora dopo il fallimento di una delle più grandi banche d’affari del mondo, vi sono stati economisti tra quelli che si prendono sul serio che non solo non hanno affatto visto le “conseguenze drammatiche” di quel che stava succedendo, ma addirittura hanno scritto che stavamo assistendo ad una svolta positiva importante, ad una “vittoria del mercato”, la prova che il capitalismo aveva lunga vita?

E quali sarebbero poi le miracolose cure inventate oggi dagli economisti? Fare sborsare allo stato enormi somme per acquistare una massa di strumenti finanziari che avevano valore di mercato zero (cash for trash), stampando moneta e creando debito pubblico. Non una grande novità. E non era poi proprio questo che fino all’altro ieri gli economisti (e specialmente quelli di loro che fanno i banchieri) additavano come il peggiore dei mali? Naturalmente adesso, e fin quando non sorga di nuovo la necessità di far finta di dimenticare le regole della “sana finanza”, iniziano di nuovo a dire che bisogna ridurre la spesa pubblica perché il debito pubblico (grazie alle loro miracolose cure, ma questo non lo dicono) è andato alle stelle. Lo stesso Draghi una quindicina di giorni fa ha rispolverato il cavallo di battaglia delle pensioni: incurante del fatto che l’INPS nel 2009 avrà un attivo di quasi 6 miliardi di euro, sfidando il buon senso è tornato a perorare la causa della riduzione della spesa pensionistica.

Ma nemmeno Draghi se l’è sentita di risparmiare un attacco alla finanza, seppure nei toni che si addicono al governatore della Banca d’Italia (ed ha anche accennato una critica agli economisti, parlando di “rappresentazioni apologetiche” del funzionamento del mercato). Draghi ha accusato la deregulation di aver permesso l’enorme indebitamento delle banche che è alla base della crisi che si è scatenata, e addirittura è arrivato a dire che, date le loro dimensioni, il rapporto tra le banche d’investimento e le agenzie di rating è tale che le prime hanno sulle seconde un potere “molto più grande che in passato”. Questo implicitamente significa che c’è del marcio al cuore del sistema finanziario: le agenzie di rating hanno svolto un ruolo chiave nel sistema di securitization alla base dell’esplosione dei profitti lucrati delle banche d’investimento sull’enorme castello di carta che ha portato alla crisi (i profitti delle imprese del settore finanziario sono oggi quasi la metà del totale dei profitti delle imprese USA). Le agenzie di rating – che contemporaneamente si ergevano a paladine della disciplina finanziaria contro gli stati spreconi – in effetti erano dei pigmei in confronto alla potenza di fuoco dei vari Goldman Sachs, Lehman Brothers e compagni, ed è difficile pensare che l’incapacità da esse mostrata nella valutazione degli strumenti finanziari della securitization fosse casuale. E non si può non concordare con Simon Johnson, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale (oggi professore al MIT), quando afferma che “il settore finanziario può ingaggiare la gente migliore, di maggior talento, pagando loro una straordinaria quantità di soldi. Avranno sempre la meglio sui regolatori”. Ne appare inficiato tutto il dibattito che si è avviato sulla regolamentazione del settore finanziario, in cui moltissimi economisti si tuffano oggi volentieri (variando l’intensità della regolamentazione consigliata si può restare sempre à la page): il problema è non solo che molte banche sono “troppo grandi per fallire” – esse sono anche “troppo grandi per essere regolate”. Una ragione in più per dire (come dicono il governatore della Banca d’Inghilterra, l’ex presidente della Federal Reserve Volcker, e adesso perfino Greenspan) che esse sono semplicemente troppo grandi.

*L’autore è professore ordinario di economia politica nell’Università di Napoli “Federico II”.

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